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 2025  aprile 15 Martedì calendario

Accordi stracciati e scatti in avanti: l’atomica resta a un passo

Ha radici antiche l’albero frondoso del nucleare iraniano, con i primi germogli spuntati alla fine degli anni ’50, all’epoca del programma statunitense Atoms for peace.
Erano anni promettenti per l’energia atomica civile, fervidi di trattative, sfociate nel Trattato di non proliferazione nucleare, promosso da Washington e ratificato dall’Iran il 2 febbraio 1970. Svoltato l’anno, ecco nascere l’Aeoi, sorta di agenzia atomica ufficiale iraniana, emanazione diretta dello Scià e incaricata di studiare i meandri del ciclo del combustibile nucleare. Scoppiata la rivoluzione komheinista nel 1979, la neonata Repubblica islamica si disse inizialmente avversa al nucleare. All’epoca, India e Israele avevano già la bomba, l’Iran stava per essere invaso dall’Iraq (1980) e gli israeliani si apprestavano a bombardare il centro di ricerca nucleare iracheno di Osirak.
Furono quelli degli spartiacque in cui giocarono tanta parte la debolezza percepita del regime, il timore di fare la fine dell’Afghanistan sovietico e la futura guerra chimica subita per mano irachena, tutti ingredienti forieri di nuovi scopi militari e di un laboratorio segreto per la chimica dell’uranio a Isfahan, di cui l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) seppe solo nel 1998. All’epoca l’Iran aveva già intrapreso l’avventura nel mondo dei missili balistici a lunga gittata, i vettori di eventuali armi atomiche e aveva iniziato a indagare sul polonio-210, teoricamente impiegabile in futuri generatori di neutroni. Vuoi per dissimulare, vuoi tattica dilatoria o per ingraziarsi la comunità internazionale, Teheran azzardò l’idea di un Medio Oriente denuclearizzato. Era il 1993 e la politica iraniana correva su due binari paralleli: accettare il regime ispettivo dell’Aiea, ma avviare contemporaneamente progetti per un reattore ad acqua pesante: il futuro Arak. Nel 2003, incalzato dall’Agenzia, il regime fece sapere di due impianti per l’arricchimento dell’uranio in fase di costruzione a Natanz. Montavano ipotesi e timori, alimentati da studi iraniani sulla conversione dell’uranio e dai primi passi in tema di separazione del plutonio. L’Aiea chiese all’Iran maggiore cooperazione e trasparenza, invocando le clausole di salvaguardia del Trattato di non proliferazione. A fine anno, l’ayatollah Khamenei si espresse contro l’atomo bellico, un editto religioso tuttora vigente. Il piano Amad fu sospeso e furono autorizzati controlli a sorpresa nelle installazioni nucleari del paese. Con l’ascesa al potere di Ahmadinejad, le posizioni iraniane si irrigidirono nuovamente.
Proposte e controproposte di accordi-quadro caddero nel vuoto.
Furono denunciati veti a ispezioni in alcuni siti, fra cui la base militare di Parchin, accusata di testare esplosivi ad alto potenziale, via maestra per l’innesco di ordigni nucleari. A fine 2006, arrivarono le prime sanzioni dell’Onu, per irretire le forniture critiche. Molto più promettente fu il secondo decennio del 2000, a partire dal dialogo irano-americano mediato dall’Oman, già allora cruciale. Fu quello il prodromo all’accordo con il gruppo dei 5, sfociato nel Jpcoa del 2015, limitante le velleità militari-nucleari iraniane. Un patto sicuramente perfettibile ma effimero, denunciato nel 2018 dal presidente statunitense Donald Trump e disatteso dall’Iran a partire da gennaio 2020, data d’inizio di una corsa esponenziale verso l’arricchimento dell’uranio al 60% di purezza, una soglia prossima a un metallo di qualità militare. Secondo l’intelligence statunitense, pur non avendo armi nucleari, l’Iran di oggi ha tutto l’occorrente per dotarsene.