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 2025  aprile 14 Lunedì calendario

Genocidio armeno. Il male negato

Se ci si vuole inoltrare nel fitto bosco dei genocidi del Novecento, suggerisce opportunamente Vittorio Robiati Bendaud in Non ti scordar di me. Storia e oblio del genocidio armeno (Liberilibri), si deve partire da quello consumatosi tra il 1915 e il 1921, il Metz Yeghérn (il Grande Male). E poi risalire indietro nel tempo. Perché tutti i genocidi, Shoah compresa, vengono da lontano. Per poi essere successivamente rimossi. Negati. E potersi così riproporre dopo qualche anno sotto nuove spoglie. A dispetto di chi, in buona o malafede, ha giurato sulla formula del «mai più».
Il genocidio armeno, sostiene Robiati Bendaud, una volta conclusasi la carneficina è rimasto «attivo» tramite il negazionismo che l’ha accompagnato e ancora oggi l’accompagna. Negazionismo che, a sua volta, è parte costitutiva, anzi «essenziale» del processo genocidario. Tale negazionismo genocida ha permesso, ai nostri giorni, il riattivarsi di politiche belliche contro gli armeni, con la «riproposizione di una realtà fittizia da parte degli aguzzini» e il «colpevole disinteresse, perfino la complice connivenza, del mondo intero». Il disinteresse occidentale nei riguardi degli armeni, sostiene Robiati Bendaud, è «omicida» verso il popolo in questione, alla stessa maniera di centodieci anni fa. Ed è «suicidario» per l’Occidente, ossia per le società liberal-democratiche, eredi della tradizione ebraico-cristiana, che consiste nel riconoscimento e nell’affermazione dei diritti umani individuali nonché nel rifiuto del genocidio in sé. Va considerato sintomo di un tradimento «al contempo omicida e suicida» che è pienamente in atto.
L’impero ottomano entrò nella Prima guerra mondiale nell’ottobre del 1914 bombardando alcune installazioni militari della Russia zarista sul Mar Nero. Ma secondo tutti o comunque la maggior parte degli storici la vicenda di cui qui ci occupiamo ebbe inizio dopo la sconfitta dell’esercito ottomano a Sarikamis sul fronte caucasico nel gennaio del 1915 che consentì ai russi di dilagare nella Grande Armenia. Un insuccesso militare dei turchi aggravato dallo sbarco alleato nei Dardanelli che fu avvertito come una minaccia alla stessa capitale.
Fu in questo contesto, scrivono Aldo Ferrari e Giusto Traina nella Storia degli armeni (il Mulino), che i soldati armeni sospettati di collusione con il nemico «cominciarono ad essere disarmati e costretti a lavori forzati che li portavano rapidamente alla morte». Ebbero inizio i primi massacri locali, il più grave dei quali fu quello che colpì l’8 aprile la città di Zeytun in Cilicia che godeva di una lunga tradizione di autonomia. Altri eccidi si registrarono nei villaggi intorno al lago di Van e fu a quel punto che, spiegano Ferrari e Traina, gli armeni della città di Van «presero le armi per sfuggire allo stesso destino, riuscendo a resistere sino all’arrivo dell’esercito russo». Secondo i turchi fu a causa di quell’insurrezione armata che l’esercito ottomano procedette a una vera e propria guerra di pulizia etnica contro gli armeni.
Ma l’ambasciatore statunitense nell’impero ottomano Henry Morgenthau nelle sue memorie – Diario 1913-1916 (Guerini e associati) – contestò quella ricostruzione. «Ho raccontato la vicenda della cosiddetta insurrezione di Van – scrisse Morgenthau – non solo perché fu l’inizio del tentativo di cancellare un’intera nazione, ma perché questi avvenimenti sono stati portati in seguito dalle autorità turche a giustificazione dei loro successivi crimini». Ogni qualvolta «mi appellavo a Talat – scriveva Morgenthau, – a Enver e agli altri in difesa degli armeni mi veniva rinfacciato l’episodio di Van come emblematico del tradimento armeno». Mentre, secondo il diplomatico, si era trattato «del tentativo più che legittimo degli armeni di difendere l’onore delle loro donne e le loro stesse vite, dopo che i turchi, massacrando migliaia dei loro vicini, avevano fatto chiaramente intendere quale destino attendesse tutti loro».
Poi, proseguono Ferrari e Traina, la data che fa testo per l’inizio del successivo genocidio è quella del 24 aprile 1915 quando a Costantinopoli vennero arrestate alcune centinaia di esponenti di rilievo della comunità armena. Tra i quali figuravano parlamentari e intellettuali. Quasi tutti vennero uccisi in quei giorni e in questo modo fu decapitata «gran parte dell’élite culturale armena». Da quel momento in ogni parte dell’impero ottomano – con l’eccezione di Costantinopoli e Smirne – cominciò quello che secondo le dichiarazioni ufficiali del governo doveva essere soltanto un provvisorio «trasferimento» degli armeni lontano dal fronte. Il 30 maggio fu approvata la Legge temporanea di deportazione. Ma si trattava, scrivono Ferrari e Traina, di una «deportazione verso il nulla, verso la morte, secondo uno schema ripetuto innumerevoli volte in tutte le città e i villaggi abitati da armeni».
Il contributo tedesco a questo genocidio fu tutt’altro che irrilevante. Robiati Bendaud ricorda che il pastore protestante Johannes Lepsius nel corso del suo viaggio in Turchia del 1915 raccolse, grazie alla collaborazione dell’ambasciata americana nonché di missionari statunitensi, svizzeri e di alcuni esponenti del Patriarcato armeno, prove inconfutabili dei massacri. Prove che raccolse in un rapporto segreto di trecento pagine che inviò in Germania. L’ambasciatore turco a Berlino (al quale furono mostrate) le definì uno strumento di «ignobile propaganda» che rischiava di mettere a repentaglio la causa comune. Il rapporto venne così occultato e il pastore fu costretto a ritirarsi in Olanda. Non solo. Terminata la guerra, Lepsius fu richiamato in Germania e gli fu affidato il compito di «purificare» gli archivi tedeschi «da ogni testimonianza della connivenza, o, peggio, della corresponsabilità tedesca nell’opera genocidaria degli armeni». Ma quella connivenza e quella corresponsabilità, nonostante l’opera a cui fu costretto Lepsius, restarono nella coscienza tedesca. E giunsero in qualche modo alle orecchie di Adolf Hitler.
Nel frattempo, crollato l’impero ottomano, Mustafa Kemal Atatürk, il fondatore della Turchia moderna, salì al potere nel 1920 e vi rimase fino al 1938, l’anno della sua morte. Ma qui ci interessa la data d’inizio della sua esperienza di governo: il 1920. Dal momento che, nonostante la parte principale del genocidio sia avvenuta tra la primavera e l’estate del 1915, il massacro e l’espulsione della popolazione armena continuarono anche negli anni successivi. Mustafa Kemal Atatürk nel ’15 comandava un reggimento a Gallipoli e non fu dunque direttamente coinvolto nel genocidio. Per un momento alla fine della guerra parve che Atatürk fosse disposto a collaborare con i vincitori e mettere sotto processo i diretti responsabili degli eccidi: Mehmet Talat (che sarà ucciso da un armeno a Berlino nel ’21) e Ismail Enver.
La posizione di Atatürk cambiò radicalmente con il trattato di pace firmato a Sèvres il 10 agosto 1920 laddove fu proprio lui a contrastare, in nome di una linea per così dire patriottica, ogni ulteriore tentativo di mettere l’Impero sul banco degli imputati. Dopodiché Ferrari e Traina segnalano il caso specifico della Cilicia che dal 1918 era stata controllata da forze francesi sotto la cui protezione gli armeni avevano potuto continuare a vivere. Ma (attenzione alle date!) nell’ottobre del 1921, in seguito al trattato di Ankara che riconsegnava la Cilicia all’impero ottomano, gli armeni furono costretti ad abbandonare precipitosamente anche questa regione. E fu un nuovo esodo funestato da lutti. Così come sanguinosa per gli armeni fu l’intera guerra greco turca (1919-1922). Che si concluse, nel settembre del 1922, con l’incendio di Smirne a seguito del quale si registrarono stragi di greci ma anche di armeni. Le vittime complessive di questa pulizia etnica sono molto difficili da stabilire con precisione, secondo Ferrari e Traina. Le cifre possibili variano dal milione al milione e mezzo di persone, su un totale di circa due milioni di armeni che abitavano nell’impero ottomano.
A detta di molti storici, tra cui Esat Uras, fu poi Atatürk che in un discorso fatto nel 1927 al secondo congresso del Partito popolare repubblicano – allocuzione che durò tre giorni consecutivi – definì il canone ufficiale della storiografia turca. E in quel discorso non c’era spazio per il genocidio armeno: anzi si posero le fondamenta definitive per la sua negazione. Da quel momento la politica dello Stato in merito al genocidio armeno è stata sempre, appunto, di negazione, ha scritto Taner Akçam – in Nazionalismo turco e genocidio armeno. Dall’Impero ottomano alla Repubblica (Guerini e associati) – mentre la società turca si limitava a manifestare «distacco». La società turca, secondo Akçam, «ha cominciato molto lentamente a prendere posizione, benché con diverse motivazioni e tendenze». Per questo, «quando esaminiamo il rapporto della Turchia con il genocidio armeno», abbiamo il dovere di fare «un discorso che non consideri solo lo Stato, ma anche i vari segmenti della società». Nei libri di testo, ha evidenziato Akçam, «grandi epoche e avvenimenti storici paiono non esistere, come se fossero stati cancellati dalla storia e dalla memoria». Si può ragionevolmente parlare di un «tentativo collettivo di dimenticare» quell’uccisione di massa. Per decenni, se qualcuno provava a parlare pubblicamente del genocidio, si trovava, riferisce Akçam, di fronte a due reazioni: «da un lato mancanza di interesse e indifferenza; dall’altro, una risposta aggressiva e ostile».
Tutto questo accadeva nonostante ci fossero stati turchi, musulmani e curdi che avevano quantomeno provato ad aiutare piccoli nuclei di armeni a salvarsi. Di loro è rimasta testimonianza nel libro di Pietro Kuciukian I disobbedienti. Viaggio tra i giusti ottomani del genocidio armeno (Guerini e associati).
Quel che di terribile era accaduto nel ’15 e che si protrasse poi per anni e anni, fu per molto tempo considerato, non solo in Turchia, un effetto tra i tanti della Grande Guerra. Ma giustamente Robiati Bendaud scrive che la riduzione del Metz Yeghérn al collasso dei grandi imperi, ai disastri connessi alle lotte tra imperialismi antagonisti, all’imperversare di nazionalismi contrari, come pure al rovinare di un assetto secolare sotto i colpi impietosi dell’economia moderna e financo dell’occidentalizzazione significa «mancare grandemente il bersaglio».
Marcello Flores, in un libro tra i più completi e documentati su questo tema – Il genocidio degli armeni (il Mulino) —, ha osservato, a proposito delle due reazioni messe a fuoco da Akçam, che «si tratta in entrambi i casi di meccanismi di rimozione e censura che permettono di rimodellare la gerarchia di importanza e il criterio di rilevanza della narrazione storica, creando dei veri e propri tabù e mettendo in atto reazioni emotive nonché meccanismi di difesa». I quali, ha sostenuto Akçam, hanno lo scopo di «evitare che la società turca rammenti fatti descritti come massacro, genocidio ed espulsione». Il fine evidente è di fare barriera contro probabili «conseguenze psicologiche, emotive o morali causate da tali ricordi».
Norman Naimark, in La politica dell’odio. La pulizia etnica nell’Europa contemporanea (Laterza) – pur ricordando la precisione degli ordini provenienti dal Ministero dell’Interno turco, la meticolosità con cui vennero eseguiti e il minuzioso controllo sulla loro attuazione —, ha scritto che, tuttavia, «le prove dell’intenzionalità del misfatto, fondamentali per l’accusa di genocidio, non sono così chiare e lampanti come vorrebbero gli storici».
Ma né la memoria superstite del Metz Yeghérn, troppo spesso oscurata quando non occultata, scrive Robiati Bendaud, né quella della Shoah, «purtroppo rincretinita e debilitata dall’eccesso di monumentalizzazione e da insidiosi processi di universalizzazione», hanno impedito che nell’arco di circa un secolo gli armeni siano nuovamente vittime di turchi e azeri e che gli ebrei in Europa e altrove debbano ancora temere per la propria vita. Con la nuova «caccia all’ebreo» nonché il ritorno di antichi «orrori ed errori». Complici il sovvertimento del linguaggio e la negazione. Funzionali da sempre all’opera genocidaria.