Corriere della Sera, 14 aprile 2025
Intervista a Francesco Renga
Vasco Rossi l’aveva messa in guardia.
«Sanremo 2005, lui era il superospite. Ci incrociamo al volo nel casino della sala stampa. E mi dice una cosa assurda: “Tu sei troppo bello”».
Non lo sapeva?
«Macché, questa storia del sex-symbol mi perseguita. So di saperci fare con le persone perché forse ho un bel sorriso, mille argomenti di cui parlare, sono divertente... ma alla bellezza non ci avevo mai pensato».
Anche i ricci fanno la loro parte.
«Mi chiedo: ma come possono essere ancora scuri? Boh... credo sia genetica».
Però ci tiene parecchio.
«Porto i capelli lunghi dai tempi dei Timoria, era un po’ una legge, perché in quegli anni andava tanto il metal e i metallari avevano le chiome fluenti. Le do una dritta».
Prego.
«Meno li tocchi e meglio è. Per mio figlio Leonardo è impossibile: “Ma come fai?”. Invece no, bisogna lavarli al massimo due volte alla settimana, ovviamente con prodotti ottimi. La mattina basta bagnarli appena appena, rinvigorirli un po’ con le mani e si è pronti per uscire».
Francesco Renga, 56 anni, ex voce degli arrabbiati Timoria, dal 2000 si è costruito una carriera da solista, segnata dalla vittoria a Sanremo nel 2005 con Angelo.
«Non era previsto che andassi al Festival, me lo chiese Bonolis. Ero impreparato. Figuriamoci se mi aspettavo il primo posto. Capii che stava succedendo qualcosa quando, dietro le quinte, D’Alessio mi mise a posto la giacca. “Uè guagliò hai vinto”. E io : “Che c... dici Gigi?”».
Si erano allineati i pianeti.
«Una roba così. Era appena nata mia figlia Jolanda, c’era stato il disastro dello tsunami, Ambra era lì sul palco e io avvertivo per la prima volta la responsabilità della paternità. Sentii il bisogno di chiedere aiuto a mia madre, un angelo. Forse tutte queste cose non dicono niente, ma su quel palco, in quel momento e ancora oggi, sono di una potenza inaudita».
Sua mamma Jolanda l’ha persa a 19 anni.
«Da lei deriva tutto il mio rapporto con le donne... ma anche quello che scrivo e faccio è legato a quella perdita che ho sempre considerato stupidamente un abbandono».
Allora parliamo di donne. Con Ambra formavate una bellissima coppia.
«Eravamo due ragazzini, ma lei era già un’icona. Quando mi dissero: ti intervista Ambra di Non è la Rai, io che non avevo visto nemmeno una puntata del programma pensai: e chi è?».
Invece se ne innamorò.
«Ho incontrato una ragazza brillantissima. È stato devastante: la bellezza e l’intelligenza insieme sono una bomba».
E poi la romanità.
«Che a me, da bresciano, fa impazzire. Il primo impatto l’ho avuto quando sono andato a conoscere i suoi genitori, a Cerveteri. Il papà mi ha aperto la porta a torso nudo, con un crocifisso al collo. “A’ bello”, ha mormorato e parlava con un tono di voce così basso che non capivo niente».
Sarà stata l’emozione.
«Forse, però ho passato tutta la cena a sforzarmi di comprendere quello che diceva, mentre lui continuava a riempirmi il bicchiere di vino. È finita che Ambra si è pure incazzata con me: “L’hai fatto ubriacare!”. Io?».
Un’altra romana doc: Sabrina Ferilli.
«L’ho incontrata ad “Amici”. Anche lei, come tutti i romani, unisce l’umanità a quel cinismo velato che serve a proteggersi e a tenerti a bada. Lo uso pure io ma con me è meno efficace».
Da Maria De Filippi si è trovato vicino a Loredana Bertè.
«L’adoro, è un mito per me. Era in gran forma».
Laura Pausini, generosa.
«Mi ha fatto un regalo inaspettato chiedendomi di aprire il suo concerto a Mexico City. Ero lì perché avevo inciso un disco in spagnolo, volevo regalarglielo soltanto per farmi dire che la mia pronuncia faceva schifo. Lei invece: “Domani canto, perché non vieni?”».
Che le ha risposto?
«Ho detto di sì ma ero terrorizzato, non capivo la lingua e non avevo la mia band, niente. Però lo ricordo come un sogno, meraviglioso. Laura è una donna e un’artista formidabile, non era costretta a invitarmi».
E pensare che a quest’ora poteva avere i gradi da generale.
«Me lo diceva sempre mio padre, sottufficiale della Guardia di Finanza».
Perché?
«Avrebbe voluto che frequentassi l’Accademia per gli ufficiali. Così, quando terminai lo scientifico mi chiese di provare l’esame».
Disse di sì?
«Dovevo partire in tour con i Timoria, per quieto vivere lo accontentai ma sapevo che i posti disponibili erano 7000 e arrivavano fra le 70 mila e le 100 mila domande. Entrare era difficilissimo: “Vuoi che prendano proprio me?”.
I Timoria
Omar Pedrini chiese a mio fratello di cantare con loro ma lui era all’università, così andai io. Brescia era piena di paninari, noi giravamo con le giacche di pelle
Sì.
«Papà tanto ha fatto, tanto ha mosso, che ho passato la prima fase, quella dell’esame fisico. A quel punto gli ho dovuto dire la verità».
I suoi piani erano diversi.
«Avrò avuto 9 o 10 anni quando andavo a vedere mio fratello che suonava cover. Le sale prove erano degli scantinati e le pareti venivano tappezzate con scatole di uova vuote che insonorizzavano in modo pratico e poco costoso».
Il primo concorso da adolescente.
«A Brescia c’era DeskoMusic, una competizione fra le band delle superiori. Io partecipavo con i Modus Vivendi. Omar Pedrini con i Precious Time, poi diventati Timoria. Chiese a mio fratello se poteva cantare con loro. Ma lui era all’università: “Se vuoi ti mando Francesco”».
È partito tutto da lì.
«Sì perché io accettai, cantare cominciava a divertirmi e poi attraeva le ragazzine. Il mio gruppo fu eliminato ma i Precious vinsero».
L’inizio della sua avventura. Eravate alieni a Brescia.
«La città era piena di paninari e noi giravamo con le giacche di pelle nera ereditate dai papà. Per me la diversità era un valore aggiunto. Ho sempre avuto la sensazione che non omologarmi mi rendesse speciale. Ogni tanto vacillavo».
Quando?
«A certe feste non ci invitavano perché non facevamo parte della compagnia. Vabbé, ci dispiaceva solo perché non avremmo potuto incontrare qualche ragazza carina».
Anni felici?
«Un po’ sì e un po’ no. I Timoria sono diventati per molto tempo la mia famiglia: mamma non c’era più, mio padre era tornato in Sardegna, mio fratello e mia sorella erano andati a vivere da soli. E io mi sono ritrovato in un grande appartamento vuoto che dovevo mantenere».
La sua vera casa era la sala prove?
«Stare con la band, suonare, scrivere, uscire la sera, andare a fare casino erano i momenti più belli di quegli anni».
Il tour, i concerti, gli album e poi si è dissolto tutto.
«Per la seconda volta, dopo la morte di mia madre. Mi sono rimboccato le maniche. Rinunciare non era previsto, perché quando ho compreso che avevo il dono di saper raccontare le cose sul palco ho capito che non avrei avuto scampo e non avrei mai potuto fare altro».
In realtà cucina benissimo.
«Ho imparato da mio padre, la domenica preparava il pranzo e io guardavo. Mi è servito quando ho avuto i bambini e Ambra lavorava fuori. Sia chiaro che cucinavo io anche quando Ambra stava a casa, lei fa solo le torte».
Nek le porta le verdure del suo orto.
«E le salse. Abbiamo gli stessi valori, la famiglia, le figlie. I due anni di tour ci hanno unito, siamo anche andati in vacanza insieme».
Da ragazzino era un sorcino.
«Renato Zero è un mio mito da quando avevo 11 anni, fino all’album Artide e Antartide conosco tutte le sue canzoni a memoria».
Era giovanissimo quando la invitò a cantare con lui allo stadio.
«Al Bentegodi di Verona. Andai con mia sorella gemella Paola, sorcina pure lei. E Renato, per smorzare l’emozione: “A ci’, se vuoi stasera te trucco io”. Gira con una valigia gigante piena di trucchi e tappezzata di specchi. Io tremavo e lui mi metteva la cipria».
Davvero ha sentito suonare le cornamuse quando ha incontrato Papa Wojtyla?
«Giovanni Paolo II stava già molto male, era in sedia a rotelle. Ero stato invitato come artista a un’udienza e mentre entrava nella sala giuro che ho sentito le cornamuse. Ovvio che non c’erano, ma la sua energia era talmente potente che nella mia testa si è trasformata in un suono».
Sua figlia Jolanda pare sia intonatissima.
«Non soltanto è brava ma anche espressiva. L’ho mandata a studiare canto e pianoforte, deciderà lei cosa vuole fare, è anche bravissima a scrivere».
Le dà consigli?
«Lei a me ed è cattivissima... viene in studio, vuole capire, conoscere i musicisti e si arrabbia quando non seguo le sue dritte. Vive con la mamma a Milano, studia comunicazione, ci vediamo nei weekend».
Lei vive con Leonardo, il secondogenito.
«Sì, è introverso, più orso, come me».
Che padre è?
«Ho capito che è il tuo muoverti nel mondo a offrirgli l’ispirazione per diventare donne e uomini. E serve anche – ride – dargli il cattivo esempio».
Come?
Il palco della Pausini
Mi fece il regalo inaspettato di aprire il suo concerto in Messico. Ero terrorizzato ma lo ricordo come un sogno. Laura è una donna e un’artista formidabile
«Quando organizzo le cene a casa mi concedo qualche bicchiere di vino perché non devo guidare. Mio figlio ha 18 anni, va alle feste con gli amici e poi riporta tutti a casa. Gli ho chiesto: “Ma una birretta non te la bevi mai?”. “Papà non starai mica scherzando? Non voglio diventare come te”».