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 2025  aprile 14 Lunedì calendario

Intervista ad Alessandro Sallusti

lessandro Sallusti, nel suo nuovo libro, «L’eresia liberale», che Rizzoli sta per pubblicare, lei accenna per la prima volta alla storia della sua famiglia. Suo nonno, Biagio Sallusti, fu fucilato dai partigiani.
«Se lei cerca il mio nome su Wikipedia, la prima cosa che scrivono è che avevo il nonno fascista. Come una lettera scarlatta, come una condanna inappellabile. Non so se mio nonno fosse davvero fascista. Certo non era un gerarca. Era un ufficiale dell’esercito. Come tanti, dopo l’8 settembre si schierò con quella che si è dimostrata la parte sbagliata della storia».
Mussolini. Salò.
«Per nulla al mondo rinnegherei la memoria di mio nonno. La rispetto. Sono onorato e orgogliosissimo di essere suo nipote. Ma non mi si chieda di condividere quello che mio nonno ha fatto. Non c’entro nulla. Però soltanto ad alcuni si chiede conto della loro genealogia. A quelli di sinistra si perdona tutto».
A chi si riferisce?
«Con la Repubblica sociale c’era anche Dario Fo. Giorgio Napolitano prima di essere comunista è stato fascista. Come Eugenio Scalfari. Come Gaetano Azzariti, collaboratore di Togliatti, primo presidente comunista della Corte Costituzionale, che era stato presidente della Commissione sulla Razza...».
Mi parli di suo nonno. Lei scrive che da bambino in casa avvertiva un non detto.
«Erano gli anni 60. Eravamo vicini alla tragedia del fascismo e della guerra civile, la gente non amava parlarne. A casa mia, poi, non se ne parlava mai. Quando chiedevo del nonno, non avevo risposte. I nonni sono figure centrali nella vita di un bambino. I genitori sono il presente e il futuro; i nonni ti dicono da dove vieni. Ero legatissimo a mia nonna Lina. Su mio nonno Biagio gravava però un silenzio imbarazzante».
Che cosa le dicevano?
«Che era morto. Sì, ma com’è morto? “È morto in guerra”. In guerra, ma come? “Sai, la guerra è una brutta cosa...”. Risposte vaghe. Non capivo. Ma alla curiosità naturale di un bambino si univa l’esigenza di comprendere perché il nonno non c’era più. Finché scoprii la verità. A scuola».
In che modo?
«Avevo dodici anni, facevo la prima media. Il manuale di storia era un libro Laterza. Per prima cosa, come fanno i ragazzi, guardai l’appendice, dove c’erano le foto. E vidi due lettere, una accanto all’altra. Lettere di due condannati a morte. Posso leggerle la prima?».
Certo.
«“Mia cara e non abbastanza adorata, le parole dell’aureo motto che dice “quando alla patria si è dato tutto non si è dato abbastanza” non sono mai state per me, come tu sai, vuote di senso... Che la mia sorte contribuisca alla pacificazione degli animi di questa martoriata Italia e che finalmente tutti gli italiani ritrovino la via che conduce alla salvezza e alla rinascita dell’Italia”. La firma era quella di Biagio Sallusti. Ho subito pensato: ma questo è mio nonno! Nessuno mi aveva mai detto che era stato fucilato».
E l’altra lettera?
«Era di Giancarlo Puecher, il partigiano fucilato in seguito alla sentenza del tribunale presieduto da mio nonno: “Iddio mi ha voluto, accetto con rassegnazione il suo volere... Voi giovani d’Italia seguite la mia via e avrete il compenso della vostra lotta ardua nel ricostruire una nuova unità nazionale”».
Quasi le stesse parole di suo nonno.
«Due italiani che vanno a morire su fronti opposti scrivono le stesse cose: pacificare, riunire, rinascere, ricostruire l’unità nazionale. Che fosse un editore di sinistra come Laterza a fare l’accostamento era un segnale prezioso».
Però suo nonno fu fucilato perché aveva fatto fucilare Puecher.
«Alcuni miliziani erano stati uccisi. Vennero arrestati partigiani considerati responsabili. Il presidente del tribunale era fuggito, il suo vice pure. Il nonno era il comandante militare della piazza di Como. Deve aver sofferto per quella sentenza di morte: i condannati dovevano essere quattro, lui riuscì a farli scendere a uno. Certo condannare a morte un ragazzo è una cosa orribile. Ma è orribile anche quello che fecero dopo alla sua famiglia».
Che cosa fecero?
«Mia nonna fu violentata. La casa devastata. Mio padre Alberto, che era il primogenito, e i suoi fratellini furono ridotti alla fame, hanno vissuto per anni grazie all’assistenza cattolica».
Chi le raccontò questo?
«Mia madre Carla, poco per volta».
E lei come reagì?
«Ringrazio Dio, e un poco anche mio padre, di avermi protetto. Perché quando uno viene a conoscenza di una cosa del genere, può essere tentato di vendicarla. Di appartenere a quella storia. Di esserne il continuatore. Invece non ho voluto avere nulla a che fare con questo. Perché la loro storia non era la mia».
In che senso?
«Non mi è mai passato per l’anticamera del cervello di fare, che so, il saluto romano; anche perché mio padre mi avrebbe fatto correre a calci. Non perché vedesse in quel gesto chissà quale scandalo; ma affinché non pensassi mai, neppure per un attimo, che quella storia fosse replicabile».
Lei cosa fece, quando scoprì la verità?
«Ne parlai con mia nonna. E lei mi disse: “Ti ricordi Alessandro quel baule che una volta l’anno porto sul terrazzo e apro per dargli aria? Ecco, in quel baule c’è tutto quello che ci hanno restituito di tuo nonno”».
Cosa c’era in quel baule?
«Il pigiama. Il pettine. Una scacchiera. Il sapone. E la divisa, che gli avevano tolto. Poi la nonna mi raccontò di quando il nonno aveva tentato di salvare la vita a Mussolini».
Mussolini in fuga da Milano arrivò a Como.
«Il Duce voleva raggiungere la Valtellina. In una drammatica riunione notturna, mio nonno tentò di convincerlo a guadagnare la sponda settentrionale del lago su una barca veloce. In un’ora sarebbe stato al sicuro. Se invece avesse proseguito in camion, lungo la strada, sarebbe andato incontro a morte certa: troppi posti di blocco dei partigiani».
Mussolini e la famiglia
Nonno Biagio tentò di salvare il Duce, convincendolo ad attraversare il lago su una barca: in un’ora sarebbe stato al sicuro, ma i tedeschi lo impedirono. La nostra casa fu devastata, mio padre Alberto e i suoi fratelli ridotti alla fame
Perché Mussolini rifiutò?
«Furono i tedeschi a non acconsentire. Perché così si sarebbe salvato soltanto lui, e non loro. Che probabilmente avevano già intenzione di usarlo come pedina di scambio: consegnare il Duce, in cambio di un lasciapassare. Fatto sta che il nonno tornò a casa disperato e disse alla nonna: “Lina, è tutto finito”».
Lei cosa votava nella Prima Repubblica?
«Votai per la prima volta nel 1976. A mio padre dissi che votavo Msi, per non ferirlo. Avevo deciso per il Pli di Zanone. Ma poi lessi sul Giornale l’articolo di Montanelli che invitava di fatto a turarsi il naso e votare Dc; e votai Dc, per impedire la vittoria dei comunisti».
Suo padre che rapporto aveva con la storia di suo papà?
«Non ne parlava mai. Credo che sia rimasto per tutta la vita un uomo profondamente infelice. Non intendeva vendicare la ferita; ma questo la rendeva ancora più profonda. Vide sua madre maltrattata, i suoi fratellini Sergio e Renato patire la fame. Un imprenditore che non si vergognava di essere stato fascista lo assunse in una ditta di trasporti: entrò fattorino, ne uscì direttore generale. Ma quando sposò mia madre, figlia di un sindacalista socialista, erano così poveri che si fecero il regalo di nozze tre anni dopo».
Anche lei ha fatto lavori umili, così racconta nel libro.
«Sono stato benzinaio: avevo dodici anni, dovevo rimboccarmi la tuta troppo grande; stipendio zero, solo mance. Poi fattorino, quindi mozzo a bordo dei battelli sul lago di Como».
Cosa trasportava come fattorino?
«Denaro. Per evitare le rapine, mandavano avanti le guardie giurate con carichi posticci, mentre i soldi in banca li portavo io, ragazzino insospettabile. Ovviamente mi pagavano in nero.
Oggi li arresterebbero. Ma per me fu importante. Non ho imparato a fare il benzinaio, né il fattorino, né il mozzo. Ho imparato a lavorare».
Poi ha fatto il militare nel battaglione San Marco.
«Sì, ma non per motivi politici. Non ero stato ammesso all’esame di maturità, perché marinavo la scuola. Dovevo sottrarmi alle ire di mio padre. Il battaglione San Marco era l’unico che mi consentisse di partire subito, in quanto volontario. Solo che con i volontari c’erano i delinquenti abituali».
Delinquenti?
«Quando ci chiesero nome, cognome e professione, il mio vicino rispose: “Andrea Berto, ladro di autoradio”. Il mio compagno di branda era un siciliano, Salvatore: una sera venne la polizia militare ad arrestarlo per omicidio, in una rissa durante la libera uscita aveva dato mano al coltello. Poi c’era il Vecio, un ragazzo di Rovigo che faceva le marchette con i vecchi... Lì ho imparato la vita, quella vera».
Lei ha scritto un libro con Giorgia Meloni. Cosa ne pensa davvero?
«Che è una novità. Non le interessa durare; vuole cambiare il Paese. Finora non ha fatto granché, è vero. Ma ha bisogno di dieci anni. Le si chiede conto di una storia da cui è stata generata: una genealogia culturale, non fisica. Però ai politici del Pd non viene mai chiesto conto della tradizione diversamente ma altrettanto illiberale e antidemocratica da cui vengono».
Che editore era Silvio Berlusconi?
«Ideale. Il clima delle riunioni con lui era talmente colloquiale che una volta Confalonieri gridò, in milanese: “Uè bagàj”, ehi ragazzi, “quando entra il presidente del Consiglio ci si alza in piedi!”. Solo una volta mi ha fatto una richiesta, con un tono di voce ultimativo, che non era il suo: “Dovete pubblicare un articolo per chiedere scusa a Fini!”. Con Feltri decidemmo di non pubblicare nulla. Poco dopo Berlusconi richiamò, a bassa voce: “Mi sono allontanato un attimo dalla riunione. Non penserete mica di fare questa sciocchezza? Ho dovuto dirvelo per dargli soddisfazione...”».
Qual è il suo giudizio su di lui?
«Berlusconi è stato unico. Chi lo raffigura come uno statista o come un evasore fiscale o come un grande imprenditore o come un puttaniere vede solo un aspetto: Berlusconi era tutte queste cose insieme, e molto di più. Mi ha raccontato sua figlia Marina che quando lo fecero Cavaliere portò tutti a Roma. La cerimonia era all’Eur, ma prima volle andare al Quirinale. La figlia bambina chiese: papà, che ci facciamo qui? E lui: “Un giorno questa sarà la nostra casa”».
Lei nel libro racconta che il sindaco Pd di Predappio le affidò un messaggio per Berlusconi.
«Voleva trasformare la casa del fascio in un grande centro studi sul fascismo. Berlusconi ci pensò qualche mese. Poi mi disse che non si poteva fare. La sinistra l’avrebbe usato contro di lui».
Come sono davvero i suoi rapporti con Vittorio Feltri?
«I suoi con me sono pessimi, i miei con lui sono ottimi».
Com’è possibile?
«Io ringrazio il destino di aver giocato con Maradona: perché il Feltri degli anni 90 e dei primi anni 2000 era il Maradona del giornalismo. Ma un Maradona sovrappeso di venti chili non può giocare. L’età ora lo costringe a bordocampo. E lui lancia improperi contro quelli che in campo ci stanno ancora».
Nel libro lei racconta molte cose, ma non il caso Boffo. Lo rifarebbe?
«Sì. Non era una bufala: Boffo era stato davvero condannato per molestie telefoniche, infatti non ci ha mai querelati. Non mi piace distruggere le persone. Ma c’era una guerra civile mediatica, pro o contro Berlusconi. Molti erano contro. Non noi».
Di Renzi cosa pensa?
«L’ho stimato, mi ha deluso. Non ci trovo nulla di scandaloso se si fa pagare per le sue conferenze; ma un ex premier non fa un libro contro la premier in carica. Pensare che Berlusconi lo apprezzava moltissimo, lo considerava il suo figlio politico».
Addirittura?
«Una volta mi mostrò un appunto. Era il progetto dell’alleanza tra due partiti: Forza Silvio, cui attribuiva il 16%, e Forza Renzi, che quotava al 26. Sognava di governare l’Italia con lui. Gli dissi che era impossibile. Rispose che le cose possibili lo annoiavano, perché le sanno fare tutti».
Cosa le è rimasto della storia con Daniela Santanché?
«Non rinnego le donne della mia vita. Né Daniela, né le mie due mogli. Ora sono felice con la mia compagna».