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 2025  aprile 14 Lunedì calendario

Stefano Accorsi: "Ma quali padri distanti e distratti La verità è che siamo assillanti"

«Non siamo al riparo da nulla – osserva Stefano Accorsi –. D’altra parte anche noi adulti, spesso, non conosciamo cose che riguardano noi stessi». Il nuovo film di Ivano De Matteo Una figlia è liberamente tratto dal libro di Ciro Noja Qualunque cosa accada (edizioni Astoria), ma ha anche straordinarie somiglianze con il tema al centro della serie fenomeno Adolescence. Anche qui c’è un padre (Accorsi) e c’è, soprattutto, una figlia ragazzina, Sofia (Ginevra Francesconi), esile e spaurita, che a un certo punto, in un accesso d’ira, compie un gesto inimmaginabile, un atto di violenza estrema che fa a pugni con il suo aspetto, con la sua educazione, con tutto quello che è stata fino a un attimo prima: «Si pensa sempre – osserva l’attore – che certe cose possano succedere solo agli altri e invece questa storia sottolinea il contrario. Certe cose possono accadere dovunque, a chiunque. Nel film il mio è un papà che si ritrova sulle montagne russe, in preda a un senso di totale straniamento, di perdita di tutto». Come in Adolescence il carico del dramma pesa sulle spalle del capofamiglia che, in questo caso, è doppiamente vedovo. Della prima moglie, e della nuova compagna che la figlia ha accoltellato.
Lei è padre di quattro figli, avuti da Laetitia Casta e da Bianca Vitali. Si è mai sentito in difficoltà, non all’altezza della situazione?
«Mi è capitato e continua a capitare. La mia è una famiglia allargata, in cui emergono problematiche continue che di volta in volta vanno affrontate».
Lei come si regola?
«Secondo me viviamo in un’epoca in cui i genitori hanno troppa attenzione nei confronti dei figli, e questo condiziona molto gli equilibri familiari. Essere genitore vuol dire essere messi in discussione, certe volte anche troppo, sentirsi responsabili di tutto, dal ritardo a scuola alla scelta del corso di studio, così i ragazzi si de-responsabilizzano. E invece quello che devono imparare è proprio assumersi le responsabilità. Anche falsificare una firma per giustificare un’assenza a scuola è un modo per apprendere qualcosa».
Insomma, troppa presenza non aiuta. È così?
«Sarebbe meglio vivere il ruolo di genitori con più di distacco e credo anche che ai figli vada lasciata un po’ più di autonomia. Siamo molto invadenti, proteggiamo i nostri figli anche troppo, forse dobbiamo recuperare un po’ di sana disattenzione. Oggi se i nostri ragazzi fanno tardi a scuola ci arriva subito la notifica sul telefonino, mi tornano in mente i miei... se avessero saputo che rischiavo la vita tutti i giorni correndo sulle strade piene di nebbia verso Bologna, non so come avrebbero reagito... Accollarsi troppe responsabilità è un atto egocentrico. Ai figli bisognerebbe dare un bonus di fiducia, come un tagliando. Se lo perdono, poi devono rifarlo, riconquistarlo».
In che senso?
«Viviamo tutti come se dovessimo proteggerci continuamente da un’entità esterna, da un pericolo, e invece i dati ci dicono che il nostro mondo è molto più sicuro che in passato e che lo sono tutte le nostre città. Siamo nell’epoca più informata di sempre e quello che funziona più di tutto sono le “fake news”. Voglio dire che il nostro è un contesto molto difficile da decifrare. I ragazzi stanno ore e ore sui social, ma non postano niente, si scambiano messaggi di cui noi non sappiamo nulla. Prima, per stare insieme, dovevano incontrarsi, oggi si vedono da remoto, hanno i loro desideri, vivono il consumismo e alla fine ciò che determina le differenze è la spaccatura, sempre più marcata, che nelle nostre società divide i ricchi dai poveri».
Adolescence è una serie Netflix che ha scatenato immenso interesse. Una figlia, dopo l’anteprima al Bif&st, sarà nei cinema dal 24. Secondo lei oggi le serie catturano l’attenzione del pubblico di più di quanto non riescano i film?
«Dopo anni in cui la serialità ha tolto pubblico alla sala, anche perché le piattaforme erano un’assoluta novità, adesso si sta creando un equilibrio molto bello. Sulle piattaforme si guardano le serie e un certo tipo di film, ma un altro tipo di cinema, soprattutto d’autore, si va a vedere nelle sale, e gli incassi lo dimostrano. Il mondo dello spettacolo sorprende sempre».
I suoi prossimi impegni sono di cinema o di serie?
«Di cinema. E anche di teatro. Film e serialità rappresentano due diversi linguaggi, confrontarsi con un autore è un’opportunità impagabile, perché, come diceva Truffaut, un autore ha un suo punto di vista, sul mondo e sul cinema. La serialità, invece, si basa sul lavoro di squadra e anche quella è un’occasione importante».
Liliana Cavani di recente ha sparato a zero sulle serie, rivendicando la superiorità del cinema.
«Sono d’accordo con lei, il cinema, oggi, è tornato ad essere un grande territorio di libertà e di sperimentazione».
In Diamanti di Ferzan Ozpetek, campione d’incassi dell’ultima stagione, lei è un regista infuriato, imperioso, aggressivo. Le è mai successo di incontrarne uno così?
«Sì, ne ho conosciuti vari... una volta ne ho incrociato uno che dirigeva una serie, si comportava in quel modo, ma tutti capivano che lo faceva per il bene del risultato finale e che lui stesso era il primo a mettersi in gioco. E poi il set non è un luogo di gentilezza. A volte diventa un posto un po’ ruvido, ma ci sta, l’ambiente di lavoro non può essere sempre perfetto, può succedere che la gente comunichi in un modo un po’ brutale, molto diretto, ma se resta il rispetto, va bene così, il confronto sarà più profondo». —