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 2025  aprile 14 Lunedì calendario

Intervista a Ernst Knam

La fabbrica del cioccolato, a Milano, è disseminata lungo un paio di strade a sud-est della città. Le insegne che si vedono sono solo due, in via Anfossi. Il resto – quattro laboratori, una scuola di pasticceria e un ufficio – è nascosto dietro gli androni di una manciata di palazzi.
È qui che Ernst Knam vive e lavora, zigzagando da 23 anni. I suoi collaboratori lo chiamano chef, per tutti gli altri da 12 anni è il “re del cioccolato”, come il titolo del programma televisivo che lo ha reso popolare. Nella lista delle passioni del giovane Ernst, nato e cresciuto sulle rive tedesche del lago di Costanza, non c’era però la cucina: «Da piccolo amavo la pesca, i volatili e il calcio», dice mentre si siede nel suo ufficio. «Giocavo col numero 6, lo stesso di Matthäus: sono arrivato in serie B, poi a 18 anni ho mollato».
E ha scelto la pasticceria. Perché?
«Sono sempre stato goloso. Anche se prima di iniziare a fare dolci per professione, provai a fare lo 007».
La spia?
«Superai l’esame per entrare nella polizia criminale, ma mi dissero: “Siamo strapieni, torna fra due anni e intanto fai l’apprendistato”. Mia madre mi propose: “Perché non fai il pasticciere? Così ogni domenica avremo una torta in casa"».
La ascoltò.
«Dopo le prime esperienze, lo chef di cucina dove lavoravo mi disse: “Hai talento, se vuoi diventare qualcuno devi andare all’estero”. Tornai a casa e fino alle quattro di notte battei a macchina venti curriculum».
Iniziò a girare così gli stellati di mezza Europa fino all’arrivo da Marchesi, all’epoca l’unico tre stelle italiano.
«Per quel colloquio, comprai la mia prima cravatta. Sembrava fosse andato tutto bene, ma il tempo passava e non ricevevo più notizie. Scrissi così al suo chef di cucina per sapere se fossero ancora interessati e, visto che c’ero, chiesi 2000 franchi svizzeri netti al mese, un posto dove dormire, mangiare e lavare gratis i miei vestiti».
Come la presero?
«Dopo una settimana mi contattarono per sapere se fossi fuori di testa. Gli risposi di cercarsi un altro. Cinque giorni dopo richiamarono: ci avevano ripensato».
Arrivò a Milano ma all’inizio non mise piede da Marchesi.
«Perché il ristorante dove sarei dovuto andare, all’hotel Brunelleschi, non era ancora pronto. Così Gualtiero mi spedì in Liguria, a Garlenda, nel relais “La Meridiana”. Appena arrivai, guardai il menu: 5 dolci, tutti sulle 4mila lire. Ne rifeci un altro, con 15 dessert: il meno costoso di 10mila lire. “Nessuno li comprerà”, protestarono. Chiesi quanti dolci vendevano. “Quindici, venti”, risposero. E io: “Datemi un mese e una giacca col mio nome, ne venderete 80"».
Vinse la scommessa?
«Sì. A fine pasto, entravo in sala, chiacchieravo con i clienti ai tavoli e loro ordinavano i dolci».
Pochi mesi dopo tornò da Marchesi.
«Il suo chef pasticciere era andato in America, così finii al suo ristorante. “Tutto bene?”, mi chiese Gualtiero al mio arrivo. “No – gli dissi – non ho la sfogliatrice, che per me è la macchina più importante”. “Quanto costa?”, domandò. “Otto milioni di lire”. Una settimana dopo, avevo una sfogliatrice e un pasticciere in meno».
Nei tre anni in cui rimase da Marchesi passarono alcuni dei più importanti nomi della ristorazione, da Carlo Cracco a Davide Oldani.
«Tutti restavano con me da uno a tre mesi: Marchesi voleva che imparassero anche la pasticceria».
Cosa facevano?
«Di tutto. A Cracco, visto che la cucina andava tirata a lucido prima delle vacanze, chiesi di pulire tutte le fughe delle piastrelle con uno spazzolino».
E Oldani?
«Adesso è un grande amico, ma all’inizio rischiammo di venire alle mani: ogni tanto veniva in pasticceria, mi prendeva l’attrezzatura portandola al piano di sotto in cucina».
Nel 1992 lei lasciò Marchesi e si mise in proprio.
«Ricevetti un’ottima proposta da Hong Kong, lo raccontai al responsabile dell’impresa di pulizia del ristorante. Mi disse: “Ma perché non apri qualcosa di tuo a Milano?”. Una domenica presi la bicicletta e feci il giro delle dieci migliori pasticcerie prendendo in ognuna un caffè. A fine giornata mi tremavano le mani per la caffeina, ma capii che potevo aprire un posto mio».
Decidendo di non servire mignon.
«Solo torte, cioccolatini, biscotti, torte salate. Su dieci clienti che entravano, otto andavano via. Ma i due che compravano tornavano».
In questi trent’anni la pasticceria italiana è molto cambiata.
«Con professionisti come Iginio Massari sono cresciuti molti giovani. Ma oggi siamo arrivati a un livello della pasticceria moderna oltre il quale non si può andare. Per questo ho deciso di tornare a 33 anni fa».
In che senso?
«Amo la pasticceria, è la mia passione, ma alla fine è pur sempre un’attività commerciale: per questo, deve produrre utile. Se, a parità di materie prime eccellenti, per fare un dolce impiego il triplo del tempo e la commessa spende dieci minuti per spiegare ogni preparazione ai clienti, ci rimetto. Con un’ottima torta di mele o un’ottima crostata riesco invece a risparmiare sia in produzione sia in vendita, e la gente torna».

Aiutata, in questo, anche dalla sua presenza in tv: ha iniziato nel 2012 e non ha più smesso.
«Prima di accettare, però, ho detto di no undici volte. Mi convinsi solo a una condizione: girare in laboratorio. Io sono un pasticciere, per me la tv è un contorno che aiuta».
Ma che sottrae molto tempo.
«Ancora oggi, con il programma Bake off, per tre mesi sono ogni giorno sul set, dalle otto di mattina a mezzanotte. Ma per la tv in realtà lavoro solo due ore: tutto il resto del tempo ho una cucina a disposizione, dove sperimento, scrivo libri e resto in contatto con la pasticceria».
Occorrerà anche delegare.
«Mio padre mi diceva sempre: fidarsi va bene, controllare è meglio».
La pasticceria resta ancora oggi un mondo maschile?
«Sì, ma su 30 persone del mio staff 23 sono donne».
Ma quante sono al vertice?
«La mia chef cioccolatiera è Giulia Aloisio. E sopra tutti, me compreso, c’è mia moglie Alessandra, “Frau Knam”, che dopo il lockdown ha aperto qui davanti una pasticceria».
Pasqua si avvicina: come si riconosce un buon uovo di cioccolato?
«Non deve essere né troppo sottile né troppo spesso, deve avere un buon profumo e una certa acidità. E soprattutto non deve essere troppo dolce: ho sempre prediletto il 70-72%, un buon compromesso».
Chef, adesso però serve una ricetta.
«Passate di qui in via Anfossi, ne vedrete di ogni».
Non vale. Ce ne dica una: che possano fare tutti, però.
«Una mousse Afrika: sciogliete 150 grammi di cioccolato fondente a 40-45 gradi, aggiungete 300 grammi di panna semimontata con la frusta. Prendete poi un bicchiere: sbriciolate dei biscotti di cioccolato, mettete tre-quattro lamponi, infine la mousse. Qualche strato, e finite tutto con altri lamponi. Vedrete che goduria».