il Fatto Quotidiano, 14 aprile 2025
Gaza, i medici evacuano i pazienti ma l’Idf bombarda lo stesso
In mezzo alla brutalità implacabile, ho perso il conto di quante volte sono sfuggita alla morte. Si potrebbe pensare che ormai mi sia abituata a questa sensazione, ma non è così. Sabato mattina, mentre cercavo un nuovo rifugio per la mia famiglia, ho sentito un missile squarciare il cielo. Il mio cuore è andato in frantumi. Mi sono bloccata in strada, accovacciata, con le mani sulla testa, in attesa dell’impatto. Il missile ha colpito – abbastanza vicino da permettermi di vedere il fumo –, poi ne è seguito un altro, che si è accanito di nuovo sullo stesso bersaglio. Era l’edificio del municipio di Deir al-Balah, a soli cinque minuti di distanza a piedi da dove mi trovavo.
Due ore dopo l’esercito ha ordinato di nuovo l’evacuazione e ha bombardato ancora sulle nostre teste, provocando un massacro. La gente è scappata in preda al panico, chiudendo bancarelle e negozi. Ho cercato rifugio in un caffè, lontano appena per sentirmi al sicuro, ma l’esplosione ha scosso l’intera città. I vetri sono andati in frantumi, il fumo nero ha riempito l’aria e l’odore di polvere da sparo ha avvolto tutto per chilometri. L’ultima volta che l’avevo sentito così forte era stato durante il bombardamento della scuola in cui mi ero rifugiata, nell’ottobre del 2023.
Era solo la mattina. Poche ore più tardi, nella notte tra sabato e domenica – un’altra notte piena di terrore – l’esercito israeliano ha emesso un ordine di evacuazione immediata per l’ospedale battista Al-Ahli (Al-Maamadani) di Gaza City. Le squadre mediche hanno provato a spostare i pazienti ma non c’era il tempo. Pochi minuti dopo, due massicci attacchi aerei hanno distrutto infatti le unità di emergenza e chirurgia. Le vittime, conto aggiornato ieri sera, dovrebbero essere quattordici, tra cui un bambino.
Non è stata la prima volta, né sarà l’ultima. L’ospedale era già stato bombardato il 16 ottobre 2023, durante una delle notti più buie della guerra, quando centinaia di civili sfollati si erano rifugiati nel suo cortile. Il massacro che sconvolse il mondo. Molti pensavano che avrebbe segnato una svolta. Invece, aprì solo le porte a un orrore più profondo.
Da allora, quasi tutte le strutture sanitarie di Gaza sono state attaccate: l’ospedale Indonesiano, Al-Shifa, l’ospedale Nasser, le cliniche mobili, persino le ambulanze e i paramedici con le pettorine. Non si tratta di una coincidenza. Si tratta di una strategia di distruzione sistematica volta a far crollare il sistema sanitario di Gaza e a rendere la sopravvivenza stessa un atto di resistenza.
Gli ospedali godono di una protezione esplicita da parte del Diritto internazionale: l’articolo 18 della Quarta Convenzione di Ginevra e l’articolo 12 del suo Primo protocollo affermano che le unità mediche devono essere protette in ogni momento e non possono mai essere legittimamente prese di mira. Eppure Israele ha bombardato Al-Maamadani senza un adeguato preavviso, usando una forza schiacciante: una chiara violazione del Diritto internazionale e un attacco diretto all’idea stessa di rifugio medico.
Ma il bersaglio non inizia a essere tale quando il missile viene lanciato. Inizia con la narrazione. Per mesi, Israele ha accusato gli ospedali di ospitare militanti, diffondendo disinformazione per privare gli ospedali della loro sacralità, in modo che il mondo diventasse insensibile e l’indignazione svanisse. E lo ha fatto anche ieri: “Dentro c’era un centro di comando di Hamas”, hanno affermato Idf e Shin Bet.
A Gaza, la gente ora vive con la schiacciante consapevolezza che persino gli ospedali non sono più sicuri. A ogni attacco non cadono solo i muri, ma anche la fiducia, la protezione e qualsiasi illusione che il diritto internazionale abbia un significato. Questa è una guerra non solo ai corpi, ma anche alle convinzioni che ci possano ancora essere spazi sacri e inviolabili. Una guerra alla speranza, che trasforma l’eccezionale in atteso e l’insopportabile in routine. L’Idf esulta sostenendo di aver colpito più di novanta obiettivi in 48 ore. Per i palestinesi di Gaza non c’è alcun luogo sicuro sotto il cielo.