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 2025  aprile 13 Domenica calendario

Pirati e conversioni su rotte comuni

Dalle molte torri di avvistamento che ancora si affacciano sul Mediterraneo, lo sguardo si spingeva fino all’orizzonte sperando di non intercettare nulla. Eppure, spesso, comparivano in lontananza i profili indistinti di navi pronte a fare razzia di merci e di persone. Pirati e corsari si avventavano sulla terraferma e poco importava se agissero legittimamente o meno.
Con Mediterraneo corsaro. Storie di schiavi, pirati e rinnegati in età moderna, Giovanna Fiume indaga quattro tra le principali azioni che si svolgevano, si subivano e si intrecciavano nel mare nostrum. A ciascuna, è dedicato un capitolo: Corseggiare, Cattivare (ovvero imprigionare), Rinnegare, Riscattare. Ne emerge il rovesciamento di diversi luoghi comuni: il Mediterraneo non è uniforme, poiché è venato da profonde diversità politiche, sociali, economiche e culturali, e il riscatto, ad esempio, è praticato pure dai musulmani. Basandosi su una vasta bibliografia, Fiume può giungere convincentemente a tali conclusioni anche grazie alle tante fonti ignorate o poco conosciute che ha esaminato, conservate negli archivi, dei quali, in particolare di quelli siciliani, è un’appassionata esperta.
Il Mediterraneo è un «guazzabuglio», crocevia di persone in movimento volontario e coatto, di merci e di commerci, di arrembaggi e di furti, di lingue e di religioni. È la cornice in cui ebrei, cristiani e musulmani si scontrano e si alleano a fini commerciali e politici. «Forze e azioni incrociate» che partono e tornano a Malta, Livorno, Tunisi, Algeri e Salé.
Coloro che sono presi, i captivi, diversamente da quelli che sono ridotti in schiavitù, hanno speranza di poter ottenere la libertà; la loro è una condizione non definitiva, anche se potenzialmente reiterabile. Comune il destino di umiliazione, di fame, di condizioni insopportabili, di abusi sessuali e di mercificazione. Pur se messi subito al remo, il valore dei captivi non è nella forza lavoro, ma nella possibilità di riscatto o di scambio. Le donne sono destinate perlopiù al lavoro domestico, mentre i bambini vengono impiegati come mozzi sulle navi e sono un bottino prezioso perché più facilmente manipolabili per le conversioni.
La violenza atroce non si ferma di fronte a niente e nessuna fede la limita: colpisce tutti. Tuttavia, le possibilità di emanciparsi differiscono. A Tunisi, a lungo contesa e poi ottomana, il rinnegato (cioè un cristiano che abiura e passa all’islam) Usta Murad, genovese, assurgerà al ruolo di pasha, riuscendo a far diventare il titolo ereditario e la sua dinastia lo deterrà dal 1612 al 1702. Murad è uno dei 33 convertiti (su 48) che, tra il 1453 e il 1623, sarebbero ascesi a incarichi istituzionali, opportunità riconosciuta (e non impedita) ai rinnegati nell’impero ottomano.

Ai vertici militari arrivano i rinnegati Uccialli e Scipione Cicala, quest’ultimo ricoprirà persino ruoli politici di primo piano, ma ancor più sorprendente potrebbe sembrare il caso di Cecilia Baffo, figlia naturale di un patrizio veneziano: catturata a 12 anni, diventa una delle mogli di Selim III, si converte, prende il nome di Nûr Bânû e mette al mondo Murad. Da captiva a venerata e potente madre del sultano, Cecilia Baffo-Nûr Bânû avrebbe favorito Venezia. La Serenissima aveva già potuto contare sull’aiuto di un’altra donna, Beatrice-Fatima Michiel, la cui storia familiare di violenze l’aveva costretta a fuggire e a convertirsi. Beatrice-Fatima si prodigò a mantenere e a migliorare le relazioni tra Venezia e l’impero ottomano. Clamorose sono poi le apostasie degli ecclesiastici: il frate Giuseppe-Yousuf abbandona il cristianesimo e poi ci ripensa, condannandosi alla morte come altri che, per non tradire la coscienza, muoiono da martiri, mentre prevalgono quelli che cambiano spesso idea e fede in un’altalena vorticosa e spregiudicata o quelli che si rifugiano nella dissimulazione. Tornare al cattolicesimo prelude alla morte: un rinnegato siciliano, a Gerusalemme, nel 1627, ha la coscienza dilaniata dal «timor di Dio» e dall’«affetto de’ suoi figli» che avrebbero pagato salatamente la sua conversione. Con l’intervento del console francese, l’uomo scappa con la famiglia.
L’ultimo capitolo è dedicato al riscatto, una pratica complessa di cui Fiume analizza le modalità genovesi, veneziane, spagnole e siciliane. Si leggono appelli accorati dei captivi a famiglie e a istituzioni affinché raccolgano le somme per pagare, su cui gravano le provvigioni degli intermediari. Il riscatto può includere uno scambio di captivi, un negoziato con infinite trattative, viaggi e precise garanzie, con mogli o madri che presentano procure. In questo groviglio di interessi, tormenti e speranze, si stagliano figure straordinarie, tra cui quella del mercante Mahmet Corat, efficace redentore di cristiani e di musulmani, attività lucrosa in cui eccelle grazie alla estesa rete di soci fidati. Gli uffici di Corat sarebbero stati utili a Ludovico Morando, che, nel 1627, con toni disperati, scrive per chiedere aiuto per riscattare i figli, di 5 e 12 anni.
Su questo palcoscenico affollato ci si contende la prima fila. Religione, politica ed economia si innestano reciprocamente nel Mediterraneo, culla incubatrice di accordi faticosamente raggiunti e mirabilmente disattesi che portano alla genesi del diritto internazionale. Si assaporano le lezioni di vite precarie segnate da guerra e fortuna, nel ritmo ipnotico delle onde che avvicinano e allontanano le varie sponde del Mediterraneo sempre dipendenti e fortemente intrecciate l’una all’altra. Indissolubilmente.