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 2025  aprile 13 Domenica calendario

La Frick Collection apre all’arte le stanze segrete

La riapertura della casa museo di Henry Clay Frick dopo cinque anni di restauri, giovedì 17 aprile a Manhattan, è uno dei grandi eventi culturali della primavera newyorkese ed è un tuffo nella Gilded Age, l’«età dell’oro» tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
La Frick Collection è la collezione che il famoso magnate dell’acciaio (famigerato, anche, per l’opposizione ai sindacati), lasciò al pubblico. Percorrendo le stanze della casa su due piani affacciata sulla Fifth Avenue ci si immerge nel gusto del tempo e di una famiglia. Il gusto soprattutto di Henry Clay Frick, che va dai paesaggi della scuola di Barbizon ai ritratti di donne avvenenti e uomini benestanti, fino a un cauto interesse per gli impressionisti, ma che coinvolse anche alcuni tra i più importanti mercanti d’arte dell’epoca per creare una delle più belle collezioni d’America.
Non c’è molta arte spagnola, ma il fatto stesso che ci siano opere come La forgia di Francisco Goya, che ritrae tre lavoratori su un foglio incandescente d’acciaio, rende la collezione all’avanguardia rispetto a quella di altri industriali del tempo, che investivano soprattutto in arte francese e inglese. Anche l’interesse per Jan Vermeer è inusuale per l’epoca: la Fantesca che porge una lettera, l’ultimo quadro che Frick acquistò, è esposto nell’immensa West Gallery, concepita per le opere d’arte.
Contribuiscono alla collezione anche la moglie di Henry, Adelaide Childs Frick, che adorava il Rococò, e la figlia, Helen Clay Frick, che dopo la morte del padre nel 1919 raccolse dipinti religiosi del primo Rinascimento italiano (Piero della Francesca, Cimabue, Duccio, Gentile da Fabriano, Paolo Veneziano), esposti dopo il restauro nella stanza che fu la sua camera da letto. Henry invece comprò pochi dipinti religiosi: tra questi c’è il San Francesco nel deserto di Giovanni Bellini. Quando Frick invecchiò e si ammalò, cominciò a trascorrere sempre più tempo da solo con le sue opere. Una volta Helen lo trovò sdraiato su un divano della West Gallery: contemplava in silenzio la sua magnifica collezione.
Abbiamo avuto l’opportunità di parlarne con Xavier Salomon, 46 anni, vicedirettore e curatore capo della Frick Collection. Nato a Roma da madre inglese e padre danese, ha passato un terzo della vita in Italia, un terzo in Gran Bretagna e un terzo negli Stati Uniti. Esperto di Rinascimento veneziano e Barocco romano, Salomon considera l’arte italiana il suo «primo amore». Durante la pandemia, quando la Frick chiuse (e iniziò i restauri), insieme a due colleghi Salomon ha tenuto online i «Cocktail con il curatore» – un successo globale, con milioni di visualizzazioni – che sono diventati un libro (Cocktails with a Curator: The Frick Collection) edito in inglese da Rizzoli Electa.
Che cosa c’è di nuovo nella Frick Collection? Di che cosa è più fiero?
«La grande aggiunta al museo è l’apertura del primo piano, che per 90 anni, da che il museo è stato creato nel 1935, era stato usato per uffici. Li abbiamo spostati nella parte nuova dell’edificio e siamo riusciti ad aprire le camere private della famiglia: ovviamente non le abbiamo ricostruite come camere da letto e bagni ma le abbiamo riallestite come gallerie in un certo senso domestiche, con quadri e sculture della collezione. Ci sono due casi in cui abbiamo ripristinato le camere esattamente com’erano: una è la stanza della prima colazione, con le stesse stoffe sui muri, le tende... e qui ci sono i paesaggi francesi dell’Ottocento della scuola di Barbizon; l’altra è il boudoir della signora Frick, il suo salottino, allestito con opere di François Boucher» (pittore di corte francese autore di dipinti allegorici, XVIII secolo, ndr).
Una casa museo della Gilded Age come questa è un caso unico?
«Per New York è senz’altro un’eccezione. In America e nel mondo ci sono alcuni esempi: penso all’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston o alla Huntington a San Marino, in California, case museo più o meno dello stesso periodo, tra fine Ottocento e primi del Novecento, con stili paragonabili, poi ovviamente con un gusto personale leggermente diverso. In Europa ci sono il Jacquemart-André a Parigi, la Wallace Collection a Londra e il Poldi Pezzoli a Milano. C’è un network di case museo di fine Ottocento e primi Novecento, anche se ovviamente le collezioni variano molto: il Poldi Pezzoli più sull’arte italiana, dal tardo Medioevo al Settecento, mentre qui c’è una collezione più internazionale, europea, quadri olandesi, spagnoli, francesi, inglesi, una collezione di più ampio respiro. Una caratteristica della Frick è che la qualità delle opere è eccezionale: due Tiziano, tre Rembrandt, tre Vermeer, il ciclo di Jean-Honoré Fragonard più importante al mondo. Da questo punto di vista è un’eccezione e un’eccellenza assoluta».
La sua esperienza – le sue origini familiari oltre al fatto che è stato curatore dei dipinti europei al Metropolitan Museum – influisce sul modo in cui gestisce questa collezione?
«Io mi sento più che altro europeo, la mia famiglia è un miscuglio di nazionalità: la mamma inglese, il papà danese ma poi in realtà tutti e due con parti della famiglia italiane, ma anche sangue polacco, messicano, egiziano. Quello che vedo qui è una collezione in America, a New York, prettamente di arte europea. Sentendomi europeo, mi sento molto a casa: è arte italiana, spagnola, francese, inglese, olandese e, in quanto collezione europea a New York, è l’unico museo che si focalizza esclusivamente su quello. Ci sono ovviamente collezioni di arte europea al Metropolitan e al Moma, ma è parte di una visione molto più globale, enciclopedica, tesa a rappresentare tutte le culture del mondo. I curatori con cui ho lavorato sono un altro italiano, una belga e una canadese e adesso un direttore tedesco. Le case museo rispetto ad altri musei sono un po’ bloccate nel tempo: ci sono quelle come la Stewart Gardner a Boston dove per lascito testamentario nulla può essere mai cambiato né spostato o esposto in maniera diversa. In altre – come Poldi Pezzoli, Frick e Wallace – le cose sono cambiate un po’ ma l’idea è mantenere l’estetica del fondatore del museo. Alcune collezioni sono “chiuse”, invece Frick ha lasciato nel testamento la volontà che la collezione continuasse a crescere. Ed è cresciuta: metà delle opere attuali il signor Frick non le ha mai viste, ma l’idea è di comprare cose che funzionano nell’ottica di quello cui era interessato».
È vero che l’ultimo quadro che Frick vide prima di morire fu un dipinto del 1782 del pittore inglese George Romney che raffigura Emma Hart, «Lady Hamilton come la Natura» (vissuta tra il 1765 e il 1815, sposò l’ambasciatore britannico a Napoli e fu l’amante di una serie di uomini facoltosi, incluso l’ammiraglio Nelson). Perché era così speciale per lui?
«Era il quadro che stava davanti al letto in cui è morto. Quindi sì, è l’ultimo che ha visto. Perché gli piacesse non lo sappiamo, ma il fatto che lo avesse appeso di fronte al letto fa capire che ci dovesse essere una certa predilezione».