La Lettura, 13 aprile 2025
La desaparecida che non spariva
L’inferno non è sottoterra, ma in avenida del Libertador, città di Buenos Aires, Argentina. Dall’ex Escuela de Mecánica de la Armada (Esma) e centro di sterminio clandestino (oggi Museo della Memoria) sono passate circa 5 mila persone: sequestrate, torturate e la maggior parte uccise dai militari della dittatura (1976-1983) guidata dal generale Jorge Videla. Silvia Labayru entra in quegli inferi, ci resta per 18 mesi – da dicembre 1976 a giugno 1978 – ed è tra le poche sopravvissute. Nonostante la picana (il pungolo elettrico), il parto di sua figlia Vera su un tavolo, le violenze, gli stupri collettivi perpetrati da Alberto González («el Gato») e da sua moglie, le uscite forzate con l’ufficiale Alfredo Astiz «el Rubio» (con cui i compagni di prigionia sospettano abbia una relazione). È anche obbligata a infiltrarsi nelle Madri di Plaza de Mayo, le parenti dei desaparecidos. Silvia esce viva e parte per Madrid. Potrebbe cominciare a costruire un nuovo presente in Spagna, invece subisce le accuse dei suoi compatrioti in esilio. Pensano che lei sia una traditrice. In tanti si chiedono: perché? Perché è ancora in vita? La sopravvivenza al campo di sterminio le si attacca addosso come una colpa.
L’argentina Leila Guerriero, che aveva 10 anni ai tempi della dittatura, ha reso questa storia individuale un libro prezioso. Uscito nel 2024, La chiamata arriva ora in Italia, edito da Sur e con la traduzione di Maria Nicola. Più che una fotografia degli anni Settanta, è un ritratto di una donna che si oppone ai massacri della storia, quella collettiva. Un ritratto definito dall’autrice «un tentativo» di ritratto. Tentativo riuscito. Perché Guerriero lascia fuori il giudizio, si limita a fare bene il lavoro della reporter. In un anno e sette mesi dialoga con Silvia Labayru e ricostruisce la sua vicenda prima, durante e dopo il golpe dei militari.
Silvia nel 1976 è sulla soglia dei 20 anni, bionda, appariscente, milita nel movimento peronista dei Montoneros (nome di battaglia «Mora») ed è incinta di cinque mesi. Viene catturata e portata all’Esma. Lì la incappucciano. La spogliano. La picchiano. La torturano. Diventa un numero: 765. La prima cosa che pensa è: «Che posto piccolo per un inferno così grande». Le scosse elettriche arrivano ovunque: naso, unghie dei piedi e delle mani, gengive, capezzoli (che perderanno sensibilità). Sui genitali no perché è incinta e la bambina è «la merce». Nell’aria sente Nat King Cole che canta Adelita. La musica serve per coprire le urla. Il 14 marzo 1977 Silvia è all’ottavo mese di gravidanza. Quello è il giorno della chiamata. Jorge Eduardo Acosta «el Tigre» telefona a suo padre, Jorge Labayru, che è maggiore dell’Aeronautica militare e pilota di Aerolíneas Argentinas. Il padre salverà la vita alla figlia senza neanche rendersene conto.
Vera viene al mondo il 28 aprile 1977, è la seconda bambina nata dentro il campo di tortura. I militari la tolgono dalle braccia di sua madre Silvia e la consegnano a Berta e Santiago Lennie, i nonni paterni. Anche loro vengono sequestrati per un mese nell’Esma (la loro figlia Sandra starà di più, l’altra figlia Cristina invece evita il sequestro: sceglie di morire mordendo una fiala di cianuro). All’Esma – riporta Guerriero – c’è una separazione tra i prigionieri: chi finirà ucciso nei voli della morte e chi invece viene cooptato per collaborare con i militari, finendo per essere sospettato di «collaborazionismo» con gli aguzzini. Silvia fa parte di questo secondo gruppo ma rivendica con orgoglio «di non aver consegnato nessuno». Lei è costretta a lavorare per la casa di produzione della propaganda Multivisión. Durante quell’anno e mezzo, ha permessi per uscire, scortata dagli ufficiali. Da sequestrata, vede la figlia Vera; incontra in Brasile e in Uruguay il padre della bimba, Alberto Lennie; va a cena fuori «nei posti più eleganti di Buenos Aires»; e poi viene riportata all’Esma dove «ci rimettevano le catene e il cappuccio». Perché non sei scappata?, le chiede il nuovo compagno Hugo. Risponde: «Perché non ce l’avrei fatta a sopportare il peso di altre colpe». La colpa è aver fatto nascere sua figlia in un posto di sterminio. Nelle sue risposte prevalgono «le critiche ai Montoneros, gli sforzi per aiutare la famiglia Lennie, il disprezzo per i militari, il sesso come piacere e autodistruzione, il male che fece a Hugo». Appena liberata, Silvia manda proprio a Hugo un telegramma: «Sono uscita dall’inferno. Aiutami».
L’autrice ammette con il lettore: le viene più semplice domandare a Silvia della tortura che della violenza sessuale. Gli stupri si intrecciano al tema del consenso: ma dov’è il consenso in un Lager? «In un campo di concentramento, il consenso non esiste (...). Tutto quello che succede è condizionato da una situazione di minaccia brutale», insiste Labayru. Lei ha denunciato gli stupri e ha testimoniato contro Alberto Eduardo González, come suo stupratore, e Jorge Eduardo Acosta, come istigatore degli abusi. Entrambi sono stati condannati all’ergastolo per crimini contro l’umanità.
Guerriero cerca i contatti di Silvia: è un reticolato minuzioso di conversazioni. «Ci ho lavorato per due anni e mezzo. Solo per quanto riguarda le trascrizioni, avevo 1.937 o 1.977 pagine», ha detto l’autrice in un’intervista con «Zenda», rivista letteraria digitale fondata da Arturo Pérez-Reverte. Tra le decine di testimonianze, ci sono le interviste agli ex mariti Alberto Lennie e Jesús Miranda; ai figli Vera Lennie e David Miranda; al compagno Hugo Dvoskin; al padre Jorge Labayru; ad amici degli anni di scuola e di militanza; ad alcune sopravvissute all’Esma. Il registratore di Guerriero sembra non essere mai stato spento. La giornalista segna tutto. Anche quando Silvia le chiede come fare manovra in auto dopo la visita al Museo della Memoria: «Mi converrà andare avanti o fare inversione?». Ogni divagazione trascina nuovi particolari. In certi punti i discorsi escono dal flusso, si interrompono. La penna di Guerriero è perfetta.