La Lettura, 13 aprile 2025
L’umanità è una malattia
Silenzioso, impronunciabile, sia per gli accademici che per gli outsider, eppure è arrivato. Un piccolo libro, invisibile in libreria, poche pagine, rilegato in forma piccola, si tiene tutto nel palmo. L’autore? Un filosofo sconosciuto ai più, norvegese, mai citato, letto solo dai pochi che lo considerano uno Zarathustra, forse il solo in grado di non temere di bruciarsi lo sguardo fissando il sole della verità. La più indicibile. La più scontata e vietata da pronunciare: la vita non ha alcun senso, nascere non è un dono, non c’è su questa Terra alcuna giustizia possibile; e ancora: l’uomo è inadatto alla felicità, l’amore è un’illusione utilizzata come anestetico esistenziale. Ma soprattutto: la coscienza è un errore dell’evoluzione, che rende l’uomo unica specie ad avere una consapevolezza così articolata che lo rende biologicamente inadatto alla sopravvivenza.
Sto parlando di Peter Wessel Zapffe e il libro è L’ultimo messia pubblicato da Mimesis, editore senza il quale avremmo le librerie mutilate di molte preziosità. Chiedo però a chi legge di fermarsi qui se non riesce ad affrontare il buio più cupo e la luce più raggiante, se considera tutto questo depressivo, o se ha chiosato sarcasticamente dentro di sé: «Mamma mia che allegria, Savia’».
Comprendo chi teme di vagare per i boschi neri e fitti del pensiero, dove non passa alcuna luce, e per questo è bene che chi mal sopporta gli arzigogoli della mente, si fermi qui, dopo il primo passo sull’uscio di questo filosofo. Fin troppo avvezzi oggi siamo al soccorso psicologico dei reel su Instagram, dove eserciti di terapeuti danno suggerimenti sulle possibilità di amori eterni e su improbabili vie per la rinascita spirituale e su soccorsi immediati per fermare l’infelicità.
Zapffe non ha nulla di consolatorio: è l’abisso dove non tutti, anzi pochissimi, possono tuffarsi. Leggete le sue parole scritte con un incedere narrativo simile al passo talmudico o di una sloka della Bhagavadgita: «Una notte in un tempo ormai remoto, l’uomo si svegliò e vide sé stesso. Egli vide che era nudo nel cosmo, senza dimora nel suo stesso corpo. Ogni cosa si aprì davanti ai suoi pensieri, meraviglia dopo meraviglia, terrore dopo terrore, tutto sbocciò nella sua mente. Poi si svegliò anche la donna e vide che era tempo di uscire e uccidere. E l’uomo raccolse il suo arco, frutto dell’unione tra spirito e mano, e andò fuori sotto le stelle. Ma quando gli animali vennero alla fonte, dove lui era solito attenderli, egli non sentiva più nel sangue il balzo della tigre, bensì un immenso cantico di fratellanza per tutto ciò che vive e condivide la sofferenza. Quel giorno tornò a mani vuote, e quando lo ritrovarono al sorgere della luna nuova, egli giaceva morto presso la fonte».
La coscienza – come scrivevo – è un errore evolutivo per Zapffe, l’uomo è un animale inadatto alla vita naturale, la sua coscienza sviluppata lo rende, al contrario di quanto crediamo, un essere irrimediabilmente violento. La consapevolezza di essere finito, di essere solo nell’abisso infinito, porta con sé ansia, paura, frustrazione e insoddisfazione che generano aggressività e violenza. Scrive Zapffe: «L’uomo è un animale tragico. Non per la sua piccolezza ma perché è troppo dotato. L’uomo ha desideri ed esigenze spirituali che la realtà non può soddisfare. L’uomo ha bisogno di un significato in un mondo senza senso. (…) Sebbene sia emersa (la coscienza, ndr) come un vantaggio iniziale per la sopravvivenza (ad esempio, per migliorare il problem-solving e la comunicazione), si è trasformata in una condanna, poiché ci ha reso consapevoli dell’insensatezza dell’esistenza». Il Sapiens è oggettivamente un errore evolutivo, la sua coscienza lo rende un essere del tutto inadatto alla vita, è consapevole della propria mortalità, non può in nessun modo evitarla eppure è programmato biologicamente per cercare un senso, non solo per desiderare un senso. L’essere umano è mangiato vivo dall’ansia di rendere costanti le cose che vive oppure costruisce nonostante sappia che tutto è destinato, presto, a scomparire. Zapffe mostra le verità terribili che la filosofia ha smesso di osservare in forma dritta, ma le coglie solo con sguardo obliquo. Non impone la logica del suo argomentare, non è un apocalittico, però il suo argomentare è scolpito nella pietra.
Volete ancora procedere? Seguitemi. «Vivere con coscienza» è un’espressione utilizzata come sinonimo di «comportamento etico», ma ne L’ultimo messia Zapffe dimostra che una delle conseguenze della coscienza umana è la violenza che sorge come effetto collaterale dell’incapacità che l’uomo ha di adattarsi al mondo.
L’essere umano è l’unico animale che uccide non per necessità biologica, ma per paura, ideologia, vendetta o puro piacere. Nessun animale persegue lo sterminio dei rivali o tortura per motivi astratti come religione, politica, onore; l’animale uccide per sfamarsi, per difesa: conquistato il territorio necessario a vivere non uccide, non si assicura altro che il sufficiente. Soltanto quando è costretto dall’uomo in condizioni brutali, l’animale reagisce con incontrollata violenza sui suoi simili. Tutti gli altri esseri viventi si adattano all’ambiente, l’uomo no, cerca di controllarlo e modificarlo: questo pone l’uomo fuori dall’equilibrio ecologico e lo porta a devastare il pianeta. Zapffe è un ecologista radicale, non c’è alcuna soluzione: o la Terra sopravvive senza l’umanità, o l’umanità la distruggerà. Gli animali vivono secondo le regole dell’ecosistema, l’uomo sfrutta e distrugge le risorse naturali senza darsi alcun limite. In Zapffe non esiste idealizzazione della natura come benevola madre che ci concede armonia: la natura invece gli appare indifferente alla sofferenza e alla distruzione, la natura non ha alcuna bontà; anzi, l’uomo è semplicemente una vittima collaterale dell’incedere indifferente della natura. L’essere umano è un parassita autodistruttivo dal momento che non solo distrugge sé stesso, ma anche il mondo che lo circonda. Devasta l’ambiente perché è incapace di vivere in equilibrio, guerreggia continuamente con altri esseri umani per saccheggiare risorse, sopprime il diverso per mantenere la propria illusione di controllo.
In definitiva, quindi, ciò che dovremmo dirci, con onestà è: non possiamo «salvare la natura» perché la natura non ha bisogno di essere salvata. L’unica cosa che possiamo ragionevolmente fare è smettere di riprodurci e lasciare che il pianeta si riprenda da solo. L’autodistruzione dell’umanità è inevitabile perché l’essere umano, incapace di fermare la propria crescita, consuma risorse senza limiti, esaurendo il pianeta. L’uomo quindi non solo porta con sé l’errore evolutivo, la coscienza, ma è egli stesso un errore ecologico: solo la sua estinzione può salvare il pianeta.
La frase più citata nelle facoltà di Filosofia, da mezzo secolo, è l’XI Tesi su Feuerbach di Karl Marx: «I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta ora di trasformarlo». Ecco, per Zapffe non c’è nulla di peggio che permettere all’uomo di trasformarlo, perché il Sapiens non potrebbe far altro che peggiorarlo.
Il libro mappa perfettamente, attraverso una serie di punti chiave, come cerchiamo di rispondere all’assoluta assenza di senso:
1. L’isolamento. Ignoriamo le verità scomode, aderiamo a una bolla di distrazione. Evitiamo di pensare alla morte nella vita quotidiana espellendola dalla nostra vita.
2. L’ancoraggio. Creiamo strutture simboliche (religione, famiglia, nazione) che danno un senso illusorio alla vita. Il cristianesimo promette un aldilà per dare speranza.
3. La distrazione. Riempiamo la vita di attività superficiali per evitare di riflettere sul nulla, l’intrattenimento perenne, il vuoto dei social media, lo shopping compulsivo.
4. La sublimazione. Trasformiamo il dolore esistenziale in arte, filosofia o scienza. La creazione artistica canalizza l’angoscia in opere che esprimono il dramma della condizione umana.
Ciascuna di queste azioni lascia il problema irrisolto perché nuovi esseri umani continueranno a nascere e soffrire. E la responsabilità dell’orrore appartiene per Zapffe alla coscienza, così come è l’immaginazione, per Yuval Noah Harari, a rendere l’umano violento, anzi a renderlo capace persino di arringare, di catalizzare e coinvolgere le folle in nome della violenza. Coscienza e immaginazione sono le due facoltà che hanno generato orrore e dominio.
«Il leone è reale, ma il re è solo una storia inventata. Eppure, milioni di persone sono disposte a morire per lui»: partiamo da questa affermazione di Harari per capire come coscienza e immaginazione lavorano. Gli scimpanzé possono comunicare informazioni reali come ad esempio «c’è un leone vicino!». Gli scimpanzé, però, non possono inventarsi una storia comune come questa: «Se tutti crediamo che lo spirito del leone ci protegge, possiamo unirci contro i nemici». È l’immaginazione che ha permesso al Sapiens di dominare e se io genericamente parlassi di coscienza e immaginazione, sareste subito portati a dare ai due termini una accezione positiva, eppure positivi lo sono nella parte minore del loro raggio d’azione.
Travolto da una costante infelicità, ho trovato nella filosofia antinatalista una salda forma di ancoraggio all’esistenza. L’antinatalismo non è una filosofia ad uso di tutti perché sopprime ogni speranza illusoria, spiega l’amore come inganno, della lotta alla giustizia svela il suo vero orizzonte: pura romanticheria. Così per me, pratico una giustizia che non ci sarà, sono secante ad amori, consapevole del loro inganno, e procedo verso orizzonti di fallimento. Perché non uccidersi?
Zapffe, pur considerando la vita senza alcun senso e il nascere un orrore, ha vissuto una vita lunga tra studio e montagna morendo a 90 anni. Sembra che il considerare vano vivere e illusorio impegnarsi nell’agone quotidiano porti longevità. Ma per replicare alla mia costante domanda sul perché non uccidersi, Zapffe risponde come il suo maestro (anch’egli longevo) Schopenhauer: il suicidio è inutile, perché non risolve la responsabilità umana ed è uno sforzo di dolore contro l’istinto alla vita. Una risposta che sposta nella lettura logica dei saggi, che sottrae l’uomo dinanzi al suo dolore. Del resto Emil Cioran, mio altro maestro d’abisso, autore de L’inconveniente di essere nati, visse 84 anni e per tutta la vita fu sempre sull’orlo di togliersela: «Chiunque parli del suicidio senza averne sentito la tentazione, è un ignorante della vita», scrive il maestro romeno, aggiungendo: «Non ci si uccide perché si vive male, ma perché si vive inutilmente».
Chi ha agito in coerenza con l’insopportabile dolore del vivere è un altro maestro del pensiero antinatalista: Philipp Mainländer, filosofo tedesco e maestro di Nietzsche, sceglie il suicidio a 34 anni come unico modo per sollevarsi dal dolore del vivere e difatti, dopo aver ricevuto la copia della sua Filosofia della redenzione, si impiccò usando, per arrivare sino alla corda, una pila composta dai suoi libri più amati che nulla hanno potuto contro l’infelicità dell’esistenza.
In attesa di trovare anch’io coraggio e determinazione per metter su la scala finale composta dai libri che non mi hanno salvato, scovo nei filosofi antinatalisti una verità che nessun altro ha il coraggio di presentarmi: «Meglio non nascere, ma se nato morire in culla» è la frase attribuita a Esiodo settecento anni prima della nascita di Cristo.
Arriviamo così alla conclusione, a ciò che avrei forse dovuto svelarvi già all’inizio di queste righe: chi è l’ultimo messia di Zapffe? È Zapffe stesso a rispondere: «Sorgerà un uomo che prima di tutti gli altri uomini ha osato denudare la propria anima e consegnarsi completamente alla nostra domanda più profonda e persino all’idea stessa dell’annientamento. Un uomo che ha colto la vita nel suo contesto cosmico e la cui agonia è l’agonia del mondo. È l’ultimo messia (…)». Poi continua: «Il marchio dell’annientamento è scritto sulla vostra fronte. Per quanto tempo vi muoverete sul filo del rasoio? Ma c’è una vittoria e una corona, una salvezza e una risposta. Conoscete voi stessi, siate sterili e che ci sia pace sulla Terra dopo il vostro passaggio».