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 2025  aprile 13 Domenica calendario

La filosofisica di Albert Einstein

Verso la fine del 1944, Robert A. Thornton, fresco di un dottorato conseguito sotto la guida di Herbert Feigl, era alle prese con la preparazione del suo primo corso di fisica da docente. Volendo introdurre «quanta più filosofia della scienza possibile» nelle proprie lezioni, scrisse ad Albert Einstein per chiedere il suo aiuto. «Sono pienamente d’accordo con lei sul significato e sul valore educativo della metodologia, della storia e della filosofia della scienza», gli rispose Einstein. «In tanti, oggi (anche scienziati professionisti), mi sembrano persone che hanno visto migliaia di alberi ma non hanno mai visto una foresta». E soggiunse: «Una conoscenza del contesto storico e filosofico dà proprio l’indipendenza dai pregiudizi della propria generazione da cui sono afflitti la maggior parte degli scienziati. A mio avviso, l’indipendenza fornita dall’intuizione filosofica è ciò che distingue un semplice artigiano, o specialista, e un autentico ricercatore della verità».
Non era la prima volta che lo scienziato s’esprimeva in questo senso. Sapeva, dopo aver attraversato da protagonista le rivoluzioni della fisica del primo Novecento, che il fatto di aver coltivato un’abitudine mentale di tipo filosofico lo aveva reso un fisico migliore. Alcuni anni dopo la lettera a Thornton, nelle riflessioni che chiudono il volume Albert Einstein, scienziato e filosofo, avrebbe sottolineato l’importanza del rapporto tra epistemologia e scienza: «Esse dipendono l’una dall’altra: l’epistemologia, senza contatto con la scienza, non è che uno schema vuoto; la scienza senza epistemologia, nella misura in cui si può pensare, è primitiva e confusa».
Già nel 1916, subito dopo aver completato la teoria generale della relatività, Einstein aveva discusso il rapporto della filosofia con la fisica in un necrologio del fisico e filosofo Ernst Mach, osservando che i propri migliori studenti – quanti, cioè, si distinguono per indipendenza di giudizio, non soltanto per velocità di ragionamento – fossero coloro che nutrivano un profondo interesse per l’epistemologia. Agli occhi di Einstein, la filosofia poteva giovare alla fisica non introducendo una qualche dottrina filosofica specifica ma incoraggiando i suoi praticanti a un atteggiamento critico nei confronti delle idee che la tradizione precedente aveva consegnato loro. «I concetti che si sono dimostrati utili per ordinare le cose acquisiscono facilmente tanta autorità su di noi», scrisse, «che dimentichiamo le loro origini terrene e li accettiamo come dati di fatto indiscutibili. (…) Il cammino del progresso scientifico è spesso reso per molto tempo impraticabile da errori di questo genere. Non è dunque un esercizio fine a sé stesso abituarci ad analizzare i concetti dati a lungo per acquisiti e mostrare le circostanze da cui dipendono (…). In questo modo, la loro eccessiva autorità sarà messa in discussione. Verranno poi rimossi, se non potranno essere adeguatamente legittimati; corretti, se la loro correlazione con i dati dell’esperienza è troppo debole; o sostituiti, se, per qualunque ragione, sarà possibile determinare un nuovo sistema preferibile al precedente».
Se Mach ebbe sicuramente un ruolo nella maturazione di questo punto di vista, non fu il solo. A 16 anni, Einstein aveva già affrontato le tre Critiche di Kant, e al grande filosofo tedesco sarebbe ritornato durante gli studi al Politecnico di Zurigo, dove, oltre a leggere Schopenhauer, Dühring e Lange (accanto a Galileo e Newton), nel 1897 frequentò le lezioni su Kant di August Stadler, esponente – con Hermann Cohen, Paul Natorp ed Ernst Cassirer (con cui Einstein avrà poi un fecondo scambio intellettuale) – della scuola neokantiana di Marburgo, che si distingueva per il tentativo di dare un senso agli aspetti fondativi e metodologici della scienza all’interno del quadro kantiano. Significativa pure la sua partecipazione a un secondo corso di Stadler, Teoria del pensiero scientifico, obbligatorio per tutti gli studenti di Fisica del Politecnico, cosa tutt’altro che comune nelle università europee, allora come oggi: come Zurigo solo Berlino, dove dal 1870 agli studenti di fisica di Hermann von Helmholtz era richiesta anche una solida preparazione filosofica, e Vienna, dove nel 1895 Mach venne chiamato a occupare la cattedra di Filosofia delle scienze induttive.
L’interesse di Einstein per la filosofia continuò anche dopo la laurea. Parallelamente all’inizio del suo lavoro all’ufficio brevetti di Berna, nel 1902, Einstein e alcuni amici, Maurice Solovine e Conrad Habicht, diedero vita a un gruppo informale di discussione di argomenti scientifici e filosofici, l’«Accademia Olympia». S’incontravano a cadenza settimanale per discutere, tra gli altri, di Avenarius e Mach, Dedekind e Poincaré, Hume e Mill, le cui opere erano state recentemente tradotte in tedesco. I semi piantati in quegli anni avrebbero dato frutti nel celebre articolo sulla teoria speciale della relatività (1905) e in altri importanti lavori successivi.
Nei primi decenni del Novecento Einstein partecipò attivamente allo sviluppo della filosofia della scienza come disciplina autonoma, entrando in rapporto con rappresentanti dell’empirismo logico, e con Moritz Schlick in particolare (ma anche con Philipp Frank e Hans Reichenbach). Non è possibile qui sintetizzare l’originale sintesi tra kantismo, neoempirismo e convenzionalismo che caratterizza la sua produzione scientifica di quegli anni. È interessante però notare come, dal 1922 in avanti, i rapporti con i membri del Circolo di Vienna cominciarono a raffreddarsi. I disaccordi vertevano su questioni fondamentali circa l’interpretazione e il controllo empirico delle teorie, ma c’era anche qualcosa di più profondo, relativo all’approccio filosofico stesso dei membri del Circolo, sempre più nettamente e dichiaratamente antimetafisico.
In Sono parte dell’infinito. La biografia spirituale di Albert Einstein (in uscita per Egea per i settant’anni dalla morte dello scienziato, 18 aprile 1955, in una traduzione purtroppo non impeccabile), Kieran Fox – basandosi tanto su testi dello stesso Einstein, dai lavori a stampa alla corrispondenza scientifica e privata, quanto su un’analisi della sua biblioteca personale, conservata presso l’Università Ebraica di Gerusalemme – traccia un quadro inedito della spiritualità che, ai suoi occhi, sembra pervadere l’opera del grande scienziato, e che potrebbe almeno in parte spiegare l’allontanamento dal Neopositivismo. Tutti sanno che Einstein era un fisico formidabile e un appassionato pacifista, ma per lui, sostiene Fox, unificare la fisica e unire l’umanità non erano che due aspetti di un’unica ricerca spirituale. Le multiformi leggi della natura fisica e la nostra apparente disunità sono solo un’«illusione ottica» causata dai limiti delle nostre menti: «Lo sforzo di liberarsi da questa illusione – scriveva Einstein – è l’unico tema della vera religione». Una religione che richiede non tanto nuove credenze, ma un nuovo modo di pensare: non più imprigionata dall’individualità, il nuovo tipo di coscienza immaginata da Einstein poteva tranquillamente dirsi «una parte dell’infinito».
Distinta da un revival nostalgico della fede occidentale o da un’ingenua imitazione della filosofia orientale, la sua era piuttosto una «religione cosmica» che richiede il riconoscimento del fatto che la realtà fisica studiata dalla scienza e gli ambiti esplorati dallo spirito sono, in effetti, una cosa sola. Una lezione, quella di Einstein, oggi in gran parte dimenticata. Come i suoi tentativi di arrivare a una teoria del campo unificato e la sua speranza di raggiungere la pace nel mondo, la rinascita spirituale auspicata da Einstein rimane infatti incompiuta. Sebbene credesse che gli esseri umani fossero «affamati di nutrimento spirituale», accusava la sua epoca di essere «barbara, materialista e superficiale». A cento anni di distanza, siamo ancora lì: in un’epoca sempre più secolare e cinica, molti cercano negli angoli più remoti del mondo un qualche tipo di spiritualità senza superstizione, un senso del sacro senza soprannaturale. Desideriamo ardentemente soddisfare i nostri impulsi religiosi profondi, senza sacrificare ragione o integrità, e nemmeno le comodità. Così facendo, però, ignoriamo la lezione filosofica forse più importante di un protagonista indiscusso del Novecento: «La scienza senza religione è zoppa; la religione senza scienza è cieca».