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 2025  aprile 13 Domenica calendario

Le guerre commerciali.

C’è una logica in questa follia. La perspicace osservazione di Polonio, nell’Amleto di Shakespeare, invita a non fermarsi alle apparenze di fronte a comportamenti che sembrano irrazionali. È ciò che dobbiamo fare a proposito dei dazi di Trump. Gran parte della stampa internazionale e degli esperti li ha bollati come misure insensate e autolesioniste, destinate a sconvolgere il commercio internazionale e a provocare gravi danni. È probabile che ciò accada: in parte anzi sta già accadendo. Ma la svolta non è frutto di follia. Si tratta piuttosto di una risposta politica (discutibile e forse inefficace, ma non irrazionale) ad alcune sfide oggettive che hanno investito l’economia americana nell’ultimo venticinquennio e causato l’impoverimento di una quota crescente di elettori.
Donald Trump ha intercettato insicurezze e paure, fornito una narrazione unificante e promesso un ventaglio di interventi riparativi. I toni aggressivi e la retorica iperbolica che hanno caratterizzato i primi cento giorni devono molto all’irruenza del presidente e alle sue tattiche di shock and awe (seminare il panico tramite colpi improvvisi). Ma Trump ha fatto proprie le indicazioni di un articolato lavoro di diagnosi e progettazione svolte da uno stuolo di think-tank marcatamente conservatori, ma non sprovveduti. Per reagire efficacemente alla strategia trumpiana occorre comprenderne bene le motivazioni: la logica sottostante, appunto. Un esercizio che va fatto distinguendo fra contesto internazionale e contesto interno, prestando particolare attenzione alla sfera politica.
Dal dopoguerra in poi, l’egemonia americana ha saputo assicurare un soddisfacente livello di stabilità e ordine alle relazioni internazionali. L’ombrello atomico statunitense ha preservato la sicurezza dei propri alleati, mentre il libero commercio fra Paesi ha potuto prosperare grazie all’affidabilità del dollaro e all’azione delle varie organizzazioni internazionali, promosse e sostenute dagli Stati Uniti. L’egemonia Usa ha perseguito un progetto «liberale» su due versanti. Ha cercato di rafforzare il radicamento delle istituzioni democratiche nel mondo e ha favorito la diffusione di norme di condotta condivise nelle interazioni fra Paesi. Un connubio fra libertà e «governo delle regole», che è il tratto distintivo del liberalismo.
Nell’arena inter-statale, lo sappiamo, non esiste un governo in senso proprio, ciò che conta è in ultima analisi l’equilibrio di «potenza» fra nazioni. Ma lo Stato più potente può scegliere di esercitare forme di egemonia vincolata, sottoponendosi esso stesso al rispetto delle regole. Molto è stato detto e scritto sui grandi vantaggi che gli Stati Uniti hanno tratto da questo approccio, sulla sua natura neo-imperiale. Soprattutto per noi europei, sono tuttavia altrettanto chiari i benefici prodotti da questo sistema sul piano della sicurezza e della crescita. Se ben disegnato e ben governato, un ordine liberale favorisce giochi a somma positiva: scambi in cui tutti i partecipanti guadagnano qualcosa.
Tre mutamenti epocali hanno messo in crisi quest’ordine a partire dagli anni Novanta. Innanzitutto, il crollo dell’impero sovietico. Il vuoto di potenza in questa enorme area geopolitica ha aperto la strada a una marcata frammentazione territoriale e poi alimentato il revanscismo della Federazione Russa. L’invasione dell’Ucraina è l’ultimo drammatico episodio di questo processo.
Il secondo cambiamento è stato il rafforzamento dell’Unione europea. Con il mercato unico, l’euro e l’allargamento a Est, l’Ue è diventata un gigante economico, capace di influire significativamente sul commercio internazionale. L’Unione è tuttavia rimasta un nano sul piano militare, dunque più che mai bisognosa dell’ombrello Usa.
Il terzo e più rilevante cambiamento è stato l’intensificarsi della globalizzazione e soprattutto l’ascesa della Cina, che ha lanciato una vera aggressione al modello economico americano. L’invasione di prodotti a basso costo e l’ ondata di de-localizzazioni delle imprese americane verso l’estero hanno accelerato il processo di de-industrializzazione, soprattutto nella cintura manifatturiera del Mid West.
Da fonte di stabilità, crescita e vantaggi condivisi, il ruolo di egemone liberale si è gradualmente trasformato in un fardello sempre più costoso per gli Stati Uniti, finendo per favorire gli interessi della Cina.
Ragionando su questi mutamenti, i think tank conservatori (in particolare la Heritage Foundation) hanno maturato la seguente diagnosi: gli Usa si sono lasciati «sfruttare» da avversari e alleati. Con le sue politiche mercantilistiche la Cina ha progressivamente minato la competitività e la resilienza economica degli Stati Uniti. La stessa Europa avrebbe tratto indebiti vantaggi, erigendo barriere di vario genere contro i prodotti americani, per non parlare dell’opportunistico abuso delle garanzie militari Usa. Le principali vittime di questo sistematico sfruttamento sono state le imprese e i lavoratori. L’economia americana ha visto erodere quel prezioso «arsenale della democrazia» (l’industria manifatturiera), che aveva garantito per lungo tempo sicurezza e prosperità. La prova più inconfutabile del declino è l’ accumulo inarrestabile del deficit commerciale, soprattutto dopo l’ingresso della Cina nella Organizzazione mondiale del commercio. Nella diagnosi dei guru trumpiani, gli Stati Uniti sono ormai diventati i grandi perdenti dell’economia globale.
Semplicistica ma non del tutto infondata, questa interpretazione ha fornito a Trump una potente narrazione politica in linea con esperienze e percezioni di una parte consistente del pubblico americano. La de-industrializzazione è un fatto incontestabile, così come il suo legame con la globalizzazione. In alcune regioni (inclusi importanti swing states come Pennsylvania, Ohio, Michigan, Indiana) il cosiddetto shock cinese ha attivato una devastante spirale di declino che ha colpito quasi tutte le fasce di popolazione.
Date le modalità di finanziamento della spesa pubblica locale, la perdita di posti di lavoro e di reddito ha comportato una forte riduzione e un peggioramento generale dei servizi. I ceti abbienti si sono trasferiti altrove, mentre la tradizionale classe operaia è rimasta intrappolata in contesti caratterizzati da un deficit ormai cronico di opportunità, crescente povertà, maggiore criminalità e acuti problemi sociali. Sono così aumentati frustrazione e risentimento, che la narrazione trumpiana ha indirizzato contro la globalizzazione e le «fregature» da parte di nemici e persino alleati. Le file sempre più folte dei cosiddetti left behind (i gruppi sociali «lasciati indietro») si sono trasformate nella base sociale del nuovo partito repubblicano: ed è proprio a questi elettori che il presidente si è rivolto quando ha annunciato il Liberation Day, l’avvio della guerra dei dazi. Secondo una lucida analisi di Federico Fubini (nella newsletter del «Corriere» Whatever it takes), la quota di «lasciati indietro» è pari al 38% di americani.
Alcune recenti ricerche hanno messo in luce un aspetto poco conosciuto dello shock cinese. Dopo i dazi già imposti da Trump durante il suo primo mandato, il governo di Pechino mise a punto un’astuta strategia di tariffe selettive volte a colpire con particolare intensità le aree territoriali della Rust Belt governate dal partito repubblicano (la «cintura della ruggine», un’espressione che indica la regione compresa tra i monti Appalachi settentrionali e i Grandi Laghi, un tempo cuore dell’industria pesante statunitense). Gli elettori hanno così penalizzato questo partito, assumendo che il peggioramento delle loro condizioni di vita fosse da imputare al governo in carica. Trump perse voti nonostante fosse stato proprio lui a introdurre le prime importanti misure protezionistiche contro la Cina. Il secondo Trump ha dunque rilanciato in grande stile, dichiarando una vera guerra commerciale non limitata alla Cina, ma di raggio mondiale.
In questa prospettiva, la strategia Maga (Make America Great Again) risponde a una logica politica ben riconoscibile. A livello nazionale, la retorica dello sfruttamento e delle «fregature» serve a mobilitare il consenso dei left behind, indirizzando le loro frustrazioni verso nemici comuni stranieri: la tattica prediletta di ogni leader populista, dalle forti venature anti-liberali. L’alleanza con i grandi imprenditori della Silicon Valley è dal canto suo funzionale al controllo di tutte quelle tecnologie duali (per usi civili e militari) indispensabili per rafforzare la superiorità economica americana.
Sul fronte esterno, la svalorizzazione delle organizzazioni internazionali e degli accordi multilaterali serve ad affermare un nuovo modello di egemonia, che potremmo definire selettiva e illiberale. Secondo la Maganomics, nel nuovo contesto caratterizzato dalla rivalità fra grandi potenze, vecchie e nuove, l’interesse nazionale americano deve essere perseguito tramite partnership settoriali, accordi e «affari» contingenti. Avendo in mente tre obiettivi: massimizzare i vantaggi per gli Stati Uniti, contenere dannose escalation dei conflitti e mantenere al tempo stesso un certo livello di instabilità strategica che disorienti gli avversari. Niente più rispetto per la tradizionale etichetta liberale nei rapporti interstatali, nemmeno con gli alleati. L’attuale negoziato con Putin è un primo, chiaro esempio della nuova strategia: un patto «faustiano» alle spalle dell’Ucraina e della Ue. Un altro esempio è la rivendicazione unilaterale della Groenlandia, in base alla semplice giustificazione che «serve all’America». Rientra in questo schema, in buona misura, anche il tira e molla sui dazi. Annunci che seminano panico, seguiti da marce indietro che alimentano le speranze: il risultato netto è il disorientamento di nemici e amici. Ossia la creazione di una instabilità strategica funzionale, appunto, alla strategia Maga.
L’Europa sarebbe l’unico attore con una cultura politica adatta a fare da contrappeso alla strategia Maga. Mancano tuttavia le capacità istituzionali per incidere a livello globale. Sarà già tanto se l’Ue riuscirà a limitare i danni e contrastare l’impatto disintegrativo che la politica di Trump rischia di provocare.
Come sappiamo bene, gli assetti istituzionali Ue rendono molto difficile l’aggregazione sovra-nazionale delle preferenze. Bisogna passare attraverso numerosi colli di bottiglia, che tendono a enfatizzare le piccole divergenze anziché i grandi interessi comuni. Per gestire Maga, i leader europei devono impegnarsi in delicati atti di equilibrismo. A dispetto delle scherzose battute di Elon Musk, l’Europa non può adottare una strategia Mega (Make Europe Great Again). Lo impedisce la natura illiberale di questo approccio. Gli stessi sovranisti filo-trumpiani lo declinerebbero comunque in termini centrifughi:ogni Stato per sé. Il vero rischio è che, in assenza di adeguate capacità di reazione, il Maga-shock finisca per minare le fondamenta dell’Unione come entità politica.
Ciò non significa ovviamente restare inerti o procedere alla giornata. Senza fughe in avanti, nel breve periodo bisogna definire un paniere minimo di «linee rosse, condivise da tutti i Paesi membri. Per il medio periodo, va elaborata un’agenda comune più ambiziosa, per quanto riguarda sia l’ordine interno dell’Ue sia la sua azione nel contesto esterno, salvaguardando le fondamenta liberali di entrambi. Le idee non mancano e le discussioni tecniche sono già avviate. Serve un’iniziativa da parte dei Paesi più europeisti. Una coalizione composta non solo da «volenterosi» in generale. Ma da leader mossi da una visione federale verso l’interno e leali ai principi dell’internazionalismo liberale verso l’esterno.