La Lettura, 13 aprile 2025
Le guerre commerciali. I dazi doganali: una fonte facile per le casse statali già nell’antico Egitto
Il commercio è antico quanto l’umanità: le prime tracce risalgono a circa 300 mila anni fa e le fonti scritte informano che l’Egitto e le città sumere imponevano dazi doganali già cinquemila anni fa. Da allora, per secoli, le tasse sul commercio sono state una fonte primaria di entrate pubbliche: erano facili da riscuotere; e i pacifici mercanti non potevano rifiutarsi di pagare. Gli introiti erano proporzionalmente molto elevati per gli Stati piccoli e situati in maniera strategica lungo le vie di comunicazione, relativamente minori per i grandi imperi quasi autosufficienti. L’impero cinese ha alternato lungo tutta la sua storia aperture prudenti al commercio internazionale, sotto stretto controllo statale, a chiusure temperate dal contrabbando. L’impero romano imponeva dazi minimi. In Oriente la sua politica fu continuata dai bizantini e in seguito dall’impero ottomano; in Occidente la sua caduta inaugurò secoli di frammentazione politica e anarchia fiscale.
Il lento ritorno alla stabilità politica favorì la crescita del commercio dall’XI secolo in poi. I traffici rimasero soggetti a forti dazi di natura fiscale, ma spesso i sovrani concedevano esenzioni o privilegi a singoli mercanti o alle loro associazioni, come l’Hansa tedesca.
Si può parlare di politica doganale nel senso moderno del termine soltanto verso la fine del XVI secolo. Gli economisti mercantilisti, come Thomas Mun, suggerirono di usare la politica doganale per accumulare metalli preziosi in modo da finanziare guerre sempre più costose. A questo scopo era necessario un surplus nella bilancia commerciale, che avrebbe dovuto essere pagato in oro. Quindi quasi tutti gli Stati europei sussidiarono le esportazioni e aumentarono i dazi sulle importazioni, spesso a livelli proibitivi, riducendo quindi il gettito fiscale. La politica mercantilista è però un gioco a somma zero: a livello mondiale surplus e deficit si compensano. Nel corso del XVIII secolo il mercantilismo venne quindi progressivamente abbandonato, ma gli eventi politici determinarono un brusco ritorno al protezionismo più estremo: nel 1806 Napoleone proibì ogni commercio con l’Inghilterra. La sconfitta della Francia portò a una nuova frammentazione del mercato europeo e molti Stati, inclusi quelli italiani, tornarono a politiche commerciali molto restrittive, con un significativo cambiamento. Per timore della concorrenza russa, la protezione venne estesa ai cereali, tradizionalmente esenti da dazi.
Il processo di liberalizzazione riprese lentamente negli anni Trenta, su impulso del Regno Unito. Prima abolì i dazi sui prodotti industriali, sfruttando la sua immensa superiorità tecnologica, e poi, nel 1843, anche quelli sul grano (Corn Laws). Altri Paesi lo imitarono: negli anni Cinquanta il Piemonte ridusse i dazi sui prodotti industriali e abolì totalmente il dazio sul grano. La liberalizzazione fu bruscamente accelerata dal trattato Cobden-Chevalier fra Regno Unito e Francia nel 1861. Oltre a ridurre i dazi, introdusse la clausola della nazione più favorita: i due Paesi si impegnarono ad applicare il dazio più basso previsto nei trattati con terzi. L’esempio franco-britannico stimolò altri Paesi, con l’eccezione della Russia.
L’Italia unita adottò la tariffa piemontese e nel 1863 firmò un trattato con la Francia che riduceva ulteriormente i dazi, esponendo l’industria italiana, soprattutto nel Sud, alla concorrenza inglese e francese. Come in molti Paesi dell’Europa continentale, l’orientamento della politica doganale italiana cambiò con l’aumento delle importazioni di grano americano. Nel 1887 il Parlamento approvò un dazio sul grano (poi aumentato molto negli anni successivi) e una nuova tariffa sui manufatti. Ne seguì una guerra commerciale con la Francia, che l’Italia perse. Il protezionismo italiano ed europeo aumentò fino alla metà degli anni Novanta, per poi diminuire a seguito della firma di una serie di nuovi trattati. Alla vigilia della Prima guerra mondiale, il commercio europeo non era più libero come attorno al 1870, ma i dazi rimanevano comunque bassi in prospettiva storica.
La situazione nel resto del mondo era diversa. Le potenze coloniali imponevano alle proprie colonie una politica doganale con due obiettivi in parte contrastanti: aprire i mercati ai prodotti della madrepatria e mantenere la colonia finanziariamente autosufficiente. Anche i Paesi asiatici, l’impero ottomano, la Cina e il Giappone, pur formalmente indipendenti, furono costretti dalle potenze occidentali a mantenere dazi molto bassi. La protezione era invece elevata nel continente americano. Gli Stati Uniti avevano imposto alti dazi sin dagli inizi del XIX secolo, sopratutto per motivi fiscali, e adottarono una politica più apertamente protezionista dopo la guerra civile, con variazioni a seconda dell’alternanza al potere fra repubblicani e democratici.
Negli anni Venti del XX secolo non ci furono grandi cambiamenti. La maggior parte dei Paesi ripristinò i dazi sospesi durante la guerra e alcuni li aumentarono, compresa l’Italia che approvò una nuova tariffa nel 1921 e reintrodusse la protezione sul grano nel 1926. Nel 1929 le barriere commerciali mondiali erano circa ai livelli del 1913. Tutto cambiò con la Grande Depressione. Alcuni Paesi aumentarono i dazi per contrastare l’emorragia di valuta determinata dal rimpatrio di capitali americani e nel luglio 1930 gli Stati Uniti approvarono la famigerata Smoot-Hawley Tariff. Non fu una risposta diretta alla depressione (era in discussione dall’aprile del 1929), ma rafforzò molto la reazione protezionista globale. Canada e Francia risposero immediatamente con dazi aggiuntivi sulle importazioni americane, e tutti i Paesi aumentarono la protezione per riservare il mercato interno ai produttori locali. Per la prima volta, vennero introdotti limiti alla quantità di prodotti importabili al posto o insieme ai dazi e si firmarono accordi bilaterali di compensazione (clearing), una forma di baratto bilanciato e organizzato dallo Stato. Il commercio mondiale crollò più del reddito e l’economia globale si frammentò in blocchi attorno ai principali Paesi (Regno Unito, Francia, Germania e Stati Uniti). L’Italia introdusse forti restrizioni alle importazioni e stipulò accordi di compensazione con Germania e altri Paesi europei. Nel 1936 ribattezzò pomposamente il pacchetto di misure adottate come «politica autarchica», anche se una vera autarchia era irrealizzabile in un Paese privo di molte materie prime essenziali.
Dopo la fine della guerra, era opinione comune che bisognasse ridurre i dazi. Gli Stati Uniti presero l’iniziativa di convocare una conferenza a Ginevra nel 1947 (Gatt o General Agreement on Tariffs and Trade). Vi parteciparono 23 Paesi, e il formato fu replicato sette volte, con un numero crescente di partecipanti, fino a 123. L’ultimo di questi round (l’Uruguay round del 1986-1994) istituì un tribunale formale per la risoluzione delle dispute commerciali,il World Trade Organization (Wto). Il round successivo (Doha 2001) fallì per divergenze su temi come la protezione dell’agricoltura e della proprietà intellettuale, rese insolubili dal diritto di veto di ogni partecipante. Da allora l’approccio multilaterale è stato sostituito da accordi bilaterali e regionali, seguendo l’esempio di grande successo dell’integrazione europea. Questa era cominciata nel 1952 come un accordo sul commercio di carbone e acciaio (Ceca), esteso a tutti i prodotti con la nascita della Comunità economica europea nel 1958. Nei dieci anni successivi furono gradualmente abolite tutte le barriere commerciali tra i Paesi membri e, dagli anni Sessanta, la Cee centralizzò la gestione della politica doganale comune, partecipando al Gatt per conto degli Stati membri. L’Italia partecipò alla liberalizzazione fin dall’inizio, aderendo al Gatt nel 1949 e figurando tra i sei membri fondatori della Ceca e della Cee.
Riassumendo, negli ultimi due secoli si sono alternate fasi di liberalizzazione (i decenni centrali del XIX secolo, la seconda metà del XX) e di restrizione del commercio (i decenni iniziali e finali del XIX secolo e soprattutto gli anni Trenta). L’Italia ha seguito le tendenze dei Paesi dell’Europa continentale, senza rilevanti divergenze, neppure sotto il fascismo. Che effetti hanno avuto questi cambiamenti sullo sviluppo economico? La risposta degli economisti, da Adam Smith in poi, è abbastanza concorde. Salvo ben precise circostanze, il libero scambio massimizza la prosperità, perché consente un’allocazione ottimale dei fattori di produzione. La produttività aumenta, riducendo i prezzi per i consumatori interni ed esteri, mentre le importazioni possono soddisfare la domanda di beni non prodotti in patria. È possibile stimare con una certa precisione gli effetti di breve periodo di un cambiamento dei dazi. Per esempio secondo una stima di Yoon Yeo Joon, i dazi americani sui manufatti tra il 1870 e il 1913 hanno ridotto il reddito nazionale del 6,7% rispetto all’alternativa del libero scambio. Con una formula diversa, è possibile stimare che il commercio ha aumentato il reddito di un campione di 38 Paesi rispetto all’autarchia, in media del 6,3% nel 1913 (Italia 4,3%) e dell’11,5% (Italia 7%) nel 2007.
Queste stime non considerano gli effetti dinamici della protezione. I dazi sono spesso giustificati come misura temporanea per rendere possibile la nascita di settori industriali essenziali per lo sviluppo di lungo periodo. I liberisti ribattono che la concorrenza straniera è uno stimolo essenziale per aumentare la produttività. Queste affermazioni spostano il dibattito dall’efficienza economica della protezione alla sua efficacia nel raggiungere l’obiettivo. Una politica efficace può essere molto inefficiente – ad esempio, i piani quinquennali di Stalin svilupparono l’industria pesante in Urss, ma a costi umani e finanziari enormi.
È possibile trovare esempi a sostegno di ambedue le tesi sull’efficacia dei dazi. Secondo Robert Allen, la protezione era fra i requisiti essenziali dell’industrializzazione dei Paesi avanzati nel XIX secolo. Allo stesso modo, Jeffrey Williamson sostiene che i Paesi della «periferia povera» avrebbero dovuto proteggere le proprie industrie tradizionali, perché la specializzazione in prodotti primari, per quanto vantaggiosa nel breve periodo, ne riduceva le prospettive di sviluppo. Negli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo, molti Paesi del cosiddetto Terzo Mondo adottarono strategie di industrializzazione tramite sostituzione delle importazioni, con risultati mediocri. Negli stessi anni, in Europa, la liberalizzazione del commercio coincise con un periodo di rapido sviluppo economico. Le analisi statistiche non risolvono i dubbi, perché i risultati dipendono dal periodo e dai Paesi considerati, oltre che dalle tecniche utilizzate. Michael Clemens e lo stesso Williamson sostengono che la protezione stimolò la crescita prima del 1913, fu irrilevante tra le due guerre e negativa successivamente. Al contrario, Moritz Schularick e Solomos Solomou trovano che l’effetto prima del 1913 fu tendenzialmente nullo.
In sostanza, le evidenze empiriche confermano che nella maggioranza dei casi la protezione è stata inefficiente, ma non escludono che sia stata efficace. Purtroppo le tecniche disponibili sono molto imperfette e comunque gli effetti dipendono in gran parte dal contesto internazionale e dalle caratteristiche di ogni Paese.