Robinson, 13 aprile 2025
Intervista a Tomaso Binga
I suoi 93 anni sono il leggero balletto che la vita dona alle persone fortunate. E Tomaso Binga è una donna fortunata. Ha la fortuna di vivere una vecchiaia non opprimente. Il suo tempo si è arrestato come l’acqua immobile su cui galleggia la ninfea. «Mi piacciono, dice, quei fiori che sembrano sorriderti e che attendono con pazienza infinita lo sguardo dello spettatore». Questa attesa rivela un lato di Binga. «So di essere stata altresì frenetica e giocosa con gli altri e con me stessa».
Il nome Tomaso Binga prese il posto di Bianca Pucciarelli: «La scena artistica era quasi esclusivamente occupata da maschi. Volevo ironizzare, dire ci sono anch’io, scusate, e cambiai nome». Una sua mostra, Euforia, sarà inaugurata il 17 aprile al museo Madre di Napoli: più di 120 opere tra poesie visive, installazioni, fotografie, collage. Un pezzo della sua lunga storia.
A volte hai messo in dubbio il tuo ruolo d’artista.
«Ho esposto in gallerie e musei, ho venduto opere e ricevuto critiche, positive e negative. Mi hanno amato per quello che ero e mi hanno dimenticato, per poi nuovamente ricordarsi di me. Sì, ho messo a volte in dubbio l’avere un ruolo. Ma poi ho anche pensato che fare arte fosse la cosa che mi piaceva. Se avessi amato la cucina, magari avrei fatto timballi. Voglio dire che non ho mai cercato spiegazioni romantiche al mio essere artista. Il fatto di presumere di esserlo l’ho vissuto nella convinzione di somigliare a una donna uscita dagli schemi e dalla prevedibilità».
Non hai usato la parola femminismo.
«Forse avrei dovuto. In fondo come artista nasco all’inizio degli anni Settanta e quello fu il decennio del femminismo. Ma non amo essere inscatolata in una definizione. Siamo tutti vittime di un’educazione sentimentale: orgogli e pregiudizi ai quali è doveroso ribellarsi».
Quando e come hai cominciato a occuparti di arte?
«Non sapevo di dovermi occupare di arte.
Cronologicamente ho iniziato negli anni Sessanta, con disegni e sculture in terracotta, robetta insomma. Ma un giorno il mio sguardo si posò su un materiale inerte e ovvio: il polistirolo. È usato per imballare gli oggetti fragili. Il polistirolo, capisci? Sentivo di essere mossa da forze anarchiche incontrollabili. Ma ero piena di dubbi».
Perché?
«Dicevo ai miei amici e a mio marito Filiberto: ho capito cosa voglio fare da grande, voglio creare oggetti la cui materia prima sia il polistirolo. Mi guardavano come se fossi pazza. Dicevano: tu lo usi e poi si deteriora nel giro di un anno. Lascia stare.
Allora non sapevamo che il polistirolo è indistruttibile, che è una delle piaghe del pianeta. Ma negli anni Settanta non si pensava alla sostenibilità. Credo di essere stata la prima e forse l’unica al mondo a usare il polistirolo».
Gli artisti tendono all’unicità.
«Ma sì, se fai una cosa, un segno, un gesto – una puttanata qualsiasi – devi fare in modo di essere il primo. È la condanna del contemporaneo: o arrivi per primo o non sei nessuno. Sarai magari un signore o una signora rispettabile. Ma non sarai riconoscibile».
E tu volevi essere riconoscibile?
«Volevo essere felice, volevo giocare, divertirmi.
Volevo che la gente non capisse la differenza tra essenziale e superfluo. Se fai arte, tutto in teoria è essenziale. Avevo un marito che è stato un grande critico d’arte. Mi bastava che lui riconoscesse non tanto il mio valore, ma le mie intenzioni».
Avrà visto e giudicato le tue opere.
«Ma cosa vuoi che valesse il giudizio di un marito, per quanto acuto e onesto? Non ha mai scritto una riga su di me. Mai. Forse all’ultimo, quando era pronto per andarsene disse che stava immaginando di scrivere su di me, sul mio lavoro. Gli dissi: Filiberto, lascia stare, non può essere questa l’ultima cosa che lasci di te».
Filiberto era Filiberto Menna.
«Entrambi salernitani. Ma laggiù ci siamo solo incrociati. L’incontro vero avvenne a Roma, dove mi arrabattavo con delle supplenze da maestra. Avevo il diploma di magistrale. Volevo fare l’università e ci rimasi male quando mio padre mi disse: “Bianca, io ho tre figlie, non posso mandarvi tutte all’università”. Mia sorella si iscrisse alla facoltà di Fisica, a Roma. A me toccò il pallido riflesso della gloria».
Lasciasti Salerno perché?
«La verità è che mi separai dal fidanzato. Un tipo imbroglioncello. Bellissimo viso ma scartellato come dicono da noi. Aveva una leggera gobba e nonostante questo difetto non faceva che tradirmi. Allora scrivevo poesiole, decisi di raggiungere mia sorella a Roma».
E incontrasti Menna.
«Uscivo da una mostra alla Galleria d’Arte Moderna e mentre alla fermata aspettavo il tram, scese Filiberto. “Bianca che ci fai tu qui?”, “Che ci fai tu?” risposi.
Aveva vinto il concorso per il ministero della Sanità.
Era medico, ma non ha mai praticato. La verità è che venne a Roma anche grazie ai cinque milioncini vinti nel 1957 partecipando a Lascia o raddoppia. Studiava medicina ma si presentò da Mike Bongiorno sugli Impressionisti. Era ferratissimo. Gli diedi il mio numero di telefono e cominciammo a frequentarci».
Tu che scrivevi poesiole e insegnavi alle elementari, come sei finita a occuparti di arte?
«Il primo stimolo venne da mio padre. Era ragioniere al comune di Salerno. Nel tempo libero amava disegnare. Da giovane era stato diversi anni in Uruguay e aveva appreso il mestiere di decoratore di vetrate. Amava il futurismo e aveva conosciuto Filippo Tommaso Marinetti. Mi mise in mano il suo Manifesto e mi insegnò i primi rudimenti del disegno. Il nome “Tomaso” è in onore di Marinetti».
La tua carriera artistica comincia con il polistirolo e poi come prosegue?
«Nel 1972 realizzai la mia prima performance. La chiamai Vista zero. Ero avvolta da un lenzuolo bianco, la testa quasi interamente coperta dalla garza. Per l’occasione realizzai un video e fu la prima volta che utilizzai il corpo. Tutto quello che ho fatto dopo ha coinvolto il corpo e il gioco».
Il gioco in che senso?
«Lo spirito giocoso contro la seriosità dell’arte. Non volevo diventare artista ma una che combinava forme, suoni, immagini e sguardi. Di qui l’interesse per la poesia visiva e per la fotografia. Decisivo fu l’incontro con Verita Monselles. Era nata in Argentina, una parte della sua famiglia proveniva dalla Russia. Aveva un occhio assolutamente teatrale, come disse Lea Vergine. La conobbi a una sua mostra, devo dire molto dissacrante, nella quale rileggeva il corpo di Gesù sulla croce trasformato nel corpo di una donna. Fu considerato un oltraggio alla religione. Mi sembrò la persona giusta».Giusta per fare cosa?
«Per un lavoro che avevo da tempo in mente e che lei fotografò. Si tratta dell’Alfabetiere murale realizzato nel 1976. Erano 26 immagini nelle quali con il corpo nudo riscrivevo le lettere dell’alfabeto».
Quella serie realizzata fu un momento importante per la cultura femminista.
«Non so quanti incontri di autocoscienza e liberazione avrò fatto allora. Nei gruppi passavano parecchie donne. Alcune importanti. Ricordo Dacia Maraini, sempre fine e discreta. Stava parecchio sulle sue».
Un’artista di spicco era Carla Accardi.
«Lei ha sempre giocato in proprio. Invece chi partecipava a volte era Mirella Bentivoglio. Collaborai con lei per un progetto che sarebbe dovuto finire alla Biennale. Presentavo la serie dei miei Dattilocodici,lavori fatti con la macchina da scrivere. Per prudenza patriarcale fu slittato di alcuni mesi. Allora i critici, a parte Lea Vergine e pochi altri, ci guardavano come fumo negli occhi».
Beh, c’era Carla Lonzi.
«Eravamo nate lo stesso anno, il 1931. Conosceva un po’ il mio lavoro ma la vidi di rado. Agli inizi degli anni Settanta aveva messo su una piccola casa editrice, Rivolta femminile. Il suo fu un femminismo radicale,intransigente, duro».
Tu invece che femminista sei stata?
«Mi appartiene l’aspetto giocoso e sdrammatizzante.
In un periodo della mia vita mi inventai le Lettere.
Diedi come titolo: “Ti scrivo solo di domenica”, perché la domenica era considerata tradizionalmente il solo giorno femminile della settimana. Naturalmente facevo dell’ironia».
Chi erano i tuoi destinatari?
«Genericamente scrivevo a una “mia cara amica”. Comunicazioni epistolari brevi, frammenti di vita quotidiana, mai spedite in realtà e trascritte in un diario».
Cosa ti affascinava delle lettere?
«Direi l’uso performativo, il fatto di poterle scriverle nel tentativo di liberare la memoria femminile da censure e autocensure».
È giusto dire che tutto il tuo lavoro è stato performativo?
«Corpo, parola, voce, gesto e scrittura: non ho fatto altro nella vita che combinare questi elementi».
Arte come spettacolo.
«Ma non spettacolare. Un approdo naturale di questa filosofia fu quando con Filiberto affittammo il Lavatoio Contumaciale, uno spazio romano dove un tempo venivano bolliti i panni infetti. Ci sembrava una buon esempio da applicare alle idee e ai linguaggi grondanti di virilità. Destinammo quel luogo, tutt’ora attivo, a mostre di poesia, musica sperimentale, conferenze e dibattiti. Non volevamo realizzare uncentro culturale serioso, ma un posto dove ci si potesse divertire, discutere e mangiare. Erano delle feste più che degli incontri».
Chi partecipava?
«Il teatro di avanguardia di quegli anni, i poeti sperimentali, quello che restava del Gruppo 63, soprattutto Balestrini, Pagliarani, a volte Sanguineti con cui eravamo grandi amici, Pignotti, ogni tanto arrivava Amelia Rosselli. Io recitavo le mie poesiole stravaganti».
In una foto ti si vede recitare la “poesia muta”.
«Con il megafono ripetevo la frase: “Zitta tu, non parlare” che è quello che di solito ci sentivamo dire dagli uomini. Grande provocazione allora, ma anche divertimento. Una sera venne Roberto Benigni. Era agli inizi. Fu molto divertente. Si vedeva il talento. Non aveva un soldo. Con Filiberto decidemmo di fare una colletta, mi pare raccogliemmo per lui trentamila lire!».
A proposito delle tue poesie, sei stata per un certo periodo ospite al Maurizio Costanzo Show.
«Ho pensato: se Filiberto è andato da Mike Bongiorno – e non amava farlo sapere – io vado da Costanzo. Perché no? Recitavo le mie poesie sonore. All’inizio il pubblico fu freddino. Poi quando declamai “e io non te la do” lagente cominciò a divertirsi».
Tuo marito come reagì?
«Filiberto non c’era più. Morì nel 1989 e la performance con Costanzo risale agli anni Novanta».
Che critico è stato Menna?
«Combatteva la tristezza del presente. Si riconosceva in un verso di Majakovskij: “Per l’allegria il nostro pianeta è poco attrezzato. Strappiamo la gioia ai giorni futuri”. Provò a farlo attraverso l’arte. Da giovane mandò una lettera a Roberto Longhi dove attribuiva a Masolino un quadro fino a quel momento ritenuto di Masaccio. E Longhi gli rispose, colpito dalle considerazioni brillanti di quel giovane».
Più che l’arte del Quattro e Cinquecento gli interessava il contemporaneo.
«La qualità maggiore di Filiberto è stata di cogliere le profonde mutazioni in atto nella cultura contemporanea. Per lui non esisteva un modo per uscire dalla crisi, ma per comprenderla sì».
Un rapporto importante fu quello tra Menna e Achille Bonito Oliva.
«Achille era sempre a casa nostra, adorava Filiberto ed era ricambiato. Si stimavano e nonostante questo litigarono. Fu penoso per me assistere al loro lungo silenzio. Solo alla fine, quando Filiberto stava male e non ne aveva più per molto, chiamai Achille e lui venne a trovarlo. Provarono a ricomporre la loro antica amicizia. Mi piace pensare che ci siano riusciti».