Robinson, 13 aprile 2025
L’alchimia del divino Tom
Era tra gli alchimisti della magia dell’elzeviro, Tommaso Landolfi, il divino Tom, così aristocraticamente a sé, fra gli orecchi assoluti della nostra letteratura. Scrittore abitato da «un suo personale rumore», scriveva: «non potrebbe darsi che ci avessi un paniere di chiocciole o comunque delle chiocciole o, via, si capisce, il loro suono?». Rammentando che «chiocciola» chiamano «un organuccio dell’orecchio interno».
Ecco riaffiorare una voce che svetta nel deserto nostrano. Perché irriducibile agli alfabeti ordinari, veri monumenti all’allibire, scipiti, triti, astrusi, putridi. Come potrebbe, se non ammaliare, almeno ottenere ascolto Tommaso Landolfi, lui che trovava amabili le civette, a loro paragonandosi? «Gatte dell’aria possono chiamarsi le civette; e anche poeti o poetesse dell’aria, nel senso che ambedue queste razze di viventi, i poeti e le civette, hanno per particolarità di vegliare la notte e di emettere versi più o meno gradevoli e modulati». Un paniere di chiocciole, cinquanta prove per la terza pagina del Corriere.
Articoli “alimentari”, come furono definiti. Composti per sbarcare il lunario, in senso stretto e in senso lato: il desco familiare e la roulette. Onorati delle stesse cure riservate alle pagine non “occasionali”.
Perché ovunque Landolfi “fa” letteratura, rifuggendo il “rumore” del mondo. «La letteratura, per esempio, non può avere la funzione di acquaio delle angosce, vere o false – precisò in un saggio su Beckett -; le quali se mai hanno da essere perfettamente dominate prima di passare sulla pagina. E, per dirla in breve, noi ci ostiniamo a credere che la letteratura sia una cosa seria».
La letteratura sovranamente a sé. Fronteggiando il Nulla o con il Nulla ( leopardianamente tutto è Nulla, solido Nulla) intrattenendosi stilisticamente. Una Grande Impresa, tanto necessaria quanto superbamente inutile. A misura di scrittori con «la stilografica che sapeva di tempeste», non di imbrattacarte, da Landolfi messi alla berlina in A tavolino: «Lo Zingarelli (se non altro), universalmente noto vocabolario della lingua italiana. – Scherziamo! Agli scrittori, signori miei, e specie agli odierni, può avvenire nel caldo della creazione come di perder conoscenza: si dirà “Ho stato?” ovvero “Sono stato?” l’acqua minerale, poniamo, si chiamerà proprio così o non piuttosto “mineraria”? Eccetera; eliminare, dunque, dal tavolo lo Zingarelli sarebbe mera follia».
È la lingua la pepita che Landolfi non lesina, come le fiches al casinò di Sanremo o di Montecarlo. Cruscheggiante, ma non vanitosa, sciacquata e risciacquata, o forse no perché naturalmente limpida, signoreggiata con dannunziana maestria (come il Vate frequentò il liceo Cicognini di Prato), di sicuro venerata e così temuta, assistendolo la consapevolezza che «a scrivere siamo soli colla nostra coscienza», che «perderci in chiacchiere inutili» non ci è permesso.
Nel Paniere si aggira Landolfi corteggiatore del Caso. Non il volgare caso, fintamente misterioso, depositario di apparenti segreti, quale si rivela per esempio alla roulette, che «annuncia colla massima chiarezza le sue prossime decisioni, o almeno fornisce notizie e ammonimenti inequivocabili circa l’andamento e la condotta generale del gioco». Il Caso, per Landolfi, è l’Ineffabile, riconoscendovi o anche solo captandovi, tale la finezza della “chiocciola” avuta in sorte, la sua tremenda musa.
Il rifugio di Landolfi era il “castelluccio” di famiglia a Pico Farnese, nel Lazio. Carlo Laurenzi, fra coloro che nel tempo lì lo raggiunsero, ne descrisse il viso non meno diruto della dimora: «Sorrideva, aveva perduto alcuni denti strategici (era il 1960, da poco aveva superato i cinquant’anni, ndr), i capelli erano grigi e radi, le rughe moltiplicate; tuttavia costatammo come si mantenesse tenebrosamente bello». A Laurenzi quell’eremitaggio richiamò alla memoria una frase narrativa di Landolfi: «Si rintana qui per dare sfogo alla sua passione: non vivere». Di primo mattino, la visita di Laurenzi. Prediligendo, Landolfi, le Visite antelucane (un’ulteriore prova accolta nel Paniere), non riuscendo come il suo alter ego a dormire, patendo le creature abominevoli che sui monti dattorno lo assediavano. Infine capendo: «Non sono tra i monti: sono dentro di noi».