Robinson, 13 aprile 2025
Lady Peggy visse d’arte e d’amore
Gli Stati Uniti non sono mai stati una monarchia ma, ciò nonostante, hanno sempre avuto le loro dinastie contraddistinte non da titoli nobiliari, ma da ricchezze generazionali tramandate dai genitori ai figli. Chi ha costruito il proprio patrimonio con l’oro, chi con il petrolio, chi con le banche, chi con la politica, e nei secoli quelli che erano considerati new money – i nuovi ricchi – oggi sono diventati gli old money. Li abbiamo sentiti nominare tutti almeno una volta, i Rockefeller, i Getty, i Morgan, gli Astor, i Guggenheim. E proprio di quest’ultima famiglia racconta Rebecca Godfrey in La principessa d’argento,per Garzanti.
Una missione di ricerca e stesura lunga dieci anni e terminata postuma – Godfrey è deceduta nel 2022 – dall’amica Leslie Jamison, che porta a compimento l’ambiziosa opera. La “principessa” di questa storia è Marguerite, meglio conosciuta come Peggy, figlia del Benjamin Guggenheim che perde la vita nell’affondamento del Titanic, lasciandola orfana di padre a quattordici anni.
Ma è a diciannove, con la maggiore età, che Peggy entra in possesso dell’eredità che le spetta: 2,5 milioni di dollari. In valuta odierna corrispondono circa a 45 milioni, tuttavia Peggy è considerata dai cugini quella del ramo “povero” della famiglia. I Guggenheim, quelli mostruosamente ricchi, sono i figli dello zio Solomon.
Nonostante il conto in banca potesse regalarle una solida serenità, Peggy comincia a lavorare come commessa in una libreria specializzata in avanguardie e, qui, familiarizza con il mondo della rivoluzione artistica in cui trascorrerà il resto della sua vita.
L’anno dopo, nel 1920, Peggy decide di andare a vivere a Parigi, cuore pulsante dell’arte, vivace e stimolante, quella raccontata da Hemingway in Festa mobile.
Peggy frequenta gli artisti della comunità bohémien di Montparnasse, poveri ma geniali, stringendo amicizie con Man Ray, Brancusi, Duchamp, partecipa ai salotti intellettuali di Gertrude Stein, e siccome l’arte è passione, poco le ci vuole per abbandonare i precetti della brava e modesta fanciulla ebrea aschenazita e seguire lo stimolo dei sensi, aprendo le porte del suo boudoir a pittori, scultori, letterati e filosofi.
Con il marito Laurence Vail – autore e scultore dadaista – la relazione è precaria e andranno più d’accordo da divorziati che non da sposati. Dopo di lui, ama intensamente l’autore John Ferrar Holms, che però muore lasciandola con il cuore spezzato. La cura è una relazione breve e infuocata con Samuel Beckett, poi convive con l’attivista comunista Douglas Garman, e dopo sposa Max Ernst nel 1941 per poi divorziare nel 1946.
Il suo biografo Gill sosterrà che, nella sua vita europea, Peggy Guggenheim ha frequentato oltre mille uomini e lei non lo smentirà. Anzi, alla domanda: «Signora Guggenheim, quanti mariti ha avuto?», lei risponde: «Intende miei, o di altre?».
Peggy sa di non essere una bellezza sconvolgente, ma è curiosa, ha gusto, studia e sviluppa un fascino di gran lunga superiore a quello deteriorabile dell’estetica, e dal suo letto passano le menti più brillanti del Novecento.
La sua determinazione di fare dell’arte la sua vita non la ferma neppure la Seconda guerra mondiale: Peggy colleziona a ciclo continuo manufatti dadaisti e surrealisti e nel 1938 apre una sua galleria a Londra, ma l’ambizione di rivaleggiare con la fondazione dello zio, Solomon Guggenheim, la spinge a voler creare un museo.
Compra un’opera d’arte al giorno, come fosse pane – e forse l’arte davvero la sfamava di più – e non contratta mai sul prezzo.
L’invasione nazista, però, la spinge a sospendere i propri piani e tornare nella più sicura New York, dove assieme alle sue opere d’arte la seguono anche molti artisti, tra cui Duchamp, Mondrian e lo stesso Ernst che poi sposa, contaminando così il panorama culturale americano con il flusso dadaista e surrealista europeo. Rimette piede nel vecchio continente solo a fine conflitto, nel 1946.
Il suo vagare trova sosta a Venezia, dove si stabilisce a Palazzo Venier e finalmente, negli anni Sessanta, la sua fame di acquisti si placa e si dedica a esibire e dare risalto a ciò che ha acquisito negli anni.
In un mondo in cui la donna vale il cognome del marito, lei non è mai stata Mrs Vail, o Mrs Holms o Mrs Ernst, ma sempre e solo Peggy Guggenheim; cresciuta con i principi dell’ebraismo più conservatore, ha trovato il coraggio di essere anticonformista, sfidando il sessismo e il nazismo imperanti.
Come cantava Tosca, Peggy visse d’amore e visse d’arte ma non fu facile perché le dinastie – nobili o no – si sa che sono tutte un po’ maledette e i Guggenheim non fanno eccezione.
La principessa d’argento è sicuramente una lettura interessate che riporta alla giusta e dovuta luce la storia di una donna che ha plasmato il patrimonio culturale del Novecento.