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 2025  aprile 13 Domenica calendario

Neffa, il ritorno: «Nessuno aveva capito che "La mia signorina" era dedicata alla marijuana. E i fan mi massacrarono»

La storia artistica di Neffa è variegata quanto il suo pubblico: batterista di un gruppo punk con i Negazione negli anni ’80, alfiere dell’hip hop italiano (con i Sangue Misto e da solista) nei ’90, cantante pop-soul nel nuovo millennio e infine interprete della canzone partenopea con «AmarAmmore» del 2021, «il mio colpo di fulmine musicale». Su una cosa, però, fan e detrattori sono sempre stati d’accordo: è stato uno dei migliori rapper di sempre. Eppure dopo aver appeso il microfono al chiodo vent’anni fa non aveva voluto saperne più nulla, anche contro i suoi stessi interessi, visti gli odierni fasti del genere in Italia. Qualche mese fa, però, la svolta, con la partecipazione a Sanremo come ospite di Shablo, Gué e Joshua per la cover della sua «Aspettando il sole». Seguirà un nuovo album rap ricco di collaborazioni, «Canerandagio Parte 1», in uscita il 18 aprile (tra i featuring già annunciati ci sono Izi, Frah Quintale, Ele A, Francesca Michielin, Joan Thiele, Gemitaiz, Fabri Fibra, Myss Keta, Lucariello, STE e Franco126), che avrà anche un secondo capitolo: «Ci sto già lavorando», conferma lui. Il progetto culminerà infine in un concerto-evento, Universo Neffa, in programma il prossimo 5 novembre al Forum di Assago.
In passato aveva escluso un suo ritorno al rap. Cosa le ha fatto cambiare idea?
«Ormai non faccio più gli album con la testa: “Canerandagio Parte 1” è nato in maniera molto spontanea. Avevo già fatto qualche pezzo rap per provare a me stesso che ne ero ancora capace, e da produttore non ho mai smesso di realizzare strumentali hip hop. Poi l’anno scorso ho conosciuto Ele A, una giovanissima rapper della Svizzera italiana, e ne sono rimasto folgorato. Le ho proposto di collaborare e, dopo aver visto che i miei ultimi esperimenti le piacevano, ho cominciato a prendere contatto con altri rapper. Al terzo brano chiuso, ho capito che stavo tornando a fare quello».

Rap, ma non trap.
«La amo molto in realtà, da produttore mi capita spesso di cimentarmici. Ormai è un passaggio generazionale obbligato: ai tempi di Goethe per diventare adulto dovevi fare il grand tour dell’Europa, oggi devi farti quattro anni di trap».
E il canto?
«Credo di riuscire meglio come autore, sono consapevole che a livello vocale ho dei limiti. Come rapper invece mi sento ancora un virtuoso, e sono contento se questo disco farà felice qualcuno che lo aspettava».
Alla notizia, i social si sono scatenati. Li legge?
«Li trovo molto democratici. Ovviamente i commenti negativi mi toccano, ma non sono nulla rispetto ai primi anni 2000, quando c’era chi mi augurava la morte ovunque: una volta mi capitò perfino in una chat di “Top Girl”, una rivista per ragazzine. Mi fa sorridere invece quando mi chiamano maestro. Preferirei essere ancora nella fase “solito stronzo”, come diceva Arbasino».
Da artista ha avuto molte vite. La sua è un’inquietudine musicale o anche personale?
«Ho sempre cercato un senso in tutto, a costo di soffrire. Temo la prevedibilità: se vedo un binario davanti a me mi innervosisco, ho bisogno di orizzonti liberi. Sicuramente con alcune scelte ho perso. Quando ho iniziato a cantare ho avuto un ritorno pessimo, molti partivano con un pregiudizio nei confronti della mia musica. Avevo esigenza di cambiare: dell’hip hop mi piaceva l’aspetto artistico, ma non l’aderenza ai dogmi da puristi. Così ho cercato un mio modo per fare pop».
Come in «La mia signorina», con cui nel 2001 debuttò da cantante: dedicato alla marijuana, fu scambiato per un brano d’amore e nessuno lo censurò.
«Ero fissato con gli esercizi di stile e i messaggi impliciti, ma nessuno capì il sottotesto. Neanche i miei fan, che mi massacrarono, convinti fosse una banale canzoncina su una ragazza. Così svelai il mistero, anche se per anni mi sono divertito a confermare e poi negare che parlasse di cannabis, a seconda del contesto».
Oggi fa sorridere pensare che abbia destato scandalo: la musica attuale è ben più esplicita.
«La grevità della musica giovanile è fisiologica: mi sorprenderebbe se un adolescente non avesse dentro di sé una certa dose di rabbia. La società però è più sedata che mai, avremmo bisogno di un seme di rivoluzione all’interno dei testi, non solo di edonismo. Singolarmente stiamo tutti malissimo, collettivamente siamo felici e sorridenti nei selfie».
Cantanti e rapper dovrebbero tornare a fare critica sociale, quindi?
«Faccio una provocazione: un artista che pensa anche al suo tornaconto economico è considerato impuro, ma nessuno si sognerebbe di dirlo di un panettiere. Dai nostri cantanti preferiti ci si aspetta abnegazione, tipo novelli Che Guevara, ma non pretendiamo la stessa coerenza dai nostri politici. Ragionamenti simili mi sembrano delle distorsioni».