il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2025
Intervista a Ugo Chiti
Sostiene Ugo Chiti: “Lo sceneggiatore è uno nell’ombra”.
Lui dall’ombra ha illuminato la strada con un numero incredibile di sceneggiature, di successi al botteghino (“ai tempi di Nuti neanche ce ne rendevamo conto”), di pellicole premiate ai David (“di statuette ne ho ancora due. Le altre o perse o rubate”). Dall’ombra ha visto nascere I Giancattivi, ha vissuto il teatro sperimentale degli anni 70, ha provato la luce della macchina da presa (“non è per me”) e i lati oscuri della fama. Conosce l’ironia, il disincanto, il valore arcaico di una battuta e la rivoluzione di saper dire “no”. Lui dall’ombra è uscito la prima volta nel 1963…
Ha esordito come attore ne La ragazza di Bube di Comencini.
Per certi versi un’esperienza comica; ci arrivai come un ragazzino di 18 anni, impegnato nel teatro ma in chiave amatoriale. Mi selezionarono, colpiti dalla mia immagine. Ma risultai decisamente maldestro…
Come?
Arrivo con il mito del cinema, di James Dean e Marlon Brando, con in testa alcune idee e suggestioni, per questo mi davo un tono pensando a Cechov; invece il primo approccio è stato un “ao’, ma che fai, spostate!” da parte dei tecnici e da lì ho coperto l’intera gamma dei possibili accadimenti ridicoli; (pausa) Comencini era talmente convinto di me da volermi coinvolgere anche nel progetto successivo, La bugiarda.
Bene.
No, la sua convinzione era precedente al mio risultare patetico sul set.
Senza se…
La produzione mi mise dentro un albergo di prima classe: mi presentai con dei vestiti comuni, non adatti, così la sera venivo scrutato, esaminato dagli altri, tutti in silenzio perché non possedevo una giacca né una cravatta; poi tutto era rallentato perché Claudia Cardinale, la protagonista, era impegnata pure sul set de Il Gattopardo, così ingenuamente andai alla reception per porre una domanda chiave: ‘Chi paga questo albergo?’. ‘Lei, è un attore’. Non dormii la notte, angosciato dai soldi, angosciato dal doverli chiedere ai miei genitori.
Alla fine?
Arrivo sul set verde in faccia, distrutto. Ne parlo con la produzione e mi spostano in un due stelle vicino alla stazione, posto terribile; non solo: avevo tre pose, ma una l’hanno tagliata, accusato di aver fatto cadere una transenna durante una scena importante, con le comparse finite a terra e danni al set. Io indicato come unico colpevole (pausa) insomma, ero una sorta di Peter Seller in stile Hollywood Party; (ride) aggiungo: ero al trucco, accanto a me Claudia Cardinale, ma non la riconosco, così inizio a spiegare che sono lì a causa di un’attesa, estenuante, della “diva”. Per fortuna la prese bene. Ma la mia carriera di attore cinematografico finì lì.
Perfetto.
Ancora oggi temo le fotografie.
Che succede?
Con le parole sono disinvolto, non sento neanche il pericolo di risultare ridicolo, ma con la fotografia mi tramuto in un primitivo: la bocca trema, lo sguardo allucinato…
E sul palco?
Quando ho recitato, anche nelle situazioni più elitarie tipo con Carmelo Bene, ed ero con i capelli lunghi e semi-nudo, non ho mai avvertito alcun timore, neanche alla Biennale di Venezia; (cambia tono) ero un fuoco vivificante e nuovo, ma anche lì…
Cosa?
La prima moglie di Carmelo Bene mi porta in un locale ed ero il numero di apertura: dovevo entrare sdraiato a terra, poi muovermi tra i tavolini e ci mettevo tutto l’impegno del mondo. Allora miro una coppietta giovane, li pensavo più disponibili, ma erano totalmente smarriti e ignari. A un certo punto vedo lui spostarsi dalla fidanzata e dirle: ‘Oh, se ci esce un figlio così lo si ammazza’. A quel punto prendo una bottiglia di birra sul tavolino, la spacco, e mi giro come se volessi ferirmi. Alla fine me ne sono andato con dentro un imbarazzo fortissimo: l’incomprensione era diventata disprezzo.
Perché il teatro?
All’inizio cercavo la regia; (pausa) sono nato e cresciuto in campagna e con gli altri bambini drammatizzavo i nostri giochi, mettevo già in scena degli inconsapevoli spettacoli, davo indicazioni su cosa dovevano fare ‘tu ora muori, tu ora fai questo’ (ride) Spesso mi mandavano affanculo, ma cercavo di mantenere una struttura del racconto a scapito della libertà; (pausa) con il teatro iniziai a 17 anni con una scuola di recitazione, alternata alle superiori e al laboratorio di serigrafia.
Sempre vena artistica.
L’arte è una salvezza.
Rispetto a che cosa?
Dal non essere totalmente allineato con il resto del mondo.
Insomma, il teatro.
Nella prima compagnia sono entrato con il ruolo di attore e regista. Ed ero affascinato dalle prove per il loro aspetto leggermente tossico.
Tradotto?
Il copione era mio, quindi conoscevo tutti i ruoli e amavo mostrarli, mi appartenevano, e vedevo il disagio di chi stava davanti a me.
Una volta in scena?
Prima del sipario mi sentivo morire; l’umore mutava una volta avvertita l’empatia del pubblico.
Grazie alla sua scrittura ha vinto sei David.
Su dieci nomination.
Bel numero.
Ridimensioniamo: i premi sono iniziati quando i grandissimi sceneggiatori erano un po’ alla fine.
Dove li tiene?
(Ride, tanto) Veri ne ho solo due, gli altri sono delle patacche. E mi hanno rubato quello vinto con L’imbalsamatore di Garrone.
Con L’imbalsamatore è andato pure a Cannes.
Sono entrato nel film grazie al padre di Matteo, grande critico teatrale e ammiratore dei miei lavori. Secondo lui nel film precedente del figlio (Estate romana) erano deboli i dialoghi e la struttura, mentre io lo trovavo perfetto.
Garrone figlio come reagì?
Capivo il suo disagio, ero lì per il padre, ma trovammo subito un accordo, tanto che alla premiazione mi disse di prendere il David.
I David sono un salto di qualità percepibile.
Perché ti vedono in televisione; (pausa, torna all’inizio) sempre per il film con la Cardinale, finisco in un servizio della Rai con me che l’abbraccio: quando sono tornato in campagna, tutti a chiedermi com’era la Cardinale, tutti a guardarmi con lo stupore negli occhi e sulle labbra. In qualche modo avevo recuperato una sorta di dignità.
Immaginavano ci fosse una storia tra voi due.
Speravano l’inventassi, non ho ceduto; (pausa, lunga) per me un grande premio è stato l’abbraccio di Luciano Berio dopo uno spettacolo.
Balzo in avanti: grazie a lei sono nati i Giancattivi.
Non è così; (pausa) una sera vado con Alessandro Benvenuti a vedere Francesco Nuti e alla fine guardo Alessandro e gli consiglio di coinvolgerlo: ‘Guarda che Nuti non è vernacolare, ma usa il dialetto con umorismo, amarezza, tenerezza. È empatico’.
I Giancattivi erano tre personalità molto forti…
All’inizio Alessandro Benvenuti era il creativo e il creatore del trio, però le tre personalità erano evidenti e dopo la rottura non è stato semplice mantenere contemporaneamente i rapporti sia con Francesco che con Alessandro.
È stato un mediatore.
Novello Novelli ripeteva: ‘Senza di noi non si sarebbero riappacificati’. Non è vero, ma Alessandro ha sofferto della fine, nonostante lui e Nuti fossero dei mondi molto diversi.
Francesco Nuti.
Molto bravo come regista, ma non è stato mai valorizzato.
Ha segnato un decennio.
Con un sottofondo di critica: vuol fare Woody Allen senza esserlo. Invece possedeva capacità tecniche.
Campione d’incassi.
A quel tempo non si dava peso al Biglietto d’oro (chi incassa di più), al contrario oggi è il massimo dei riconoscimenti.
Oggi c’è più fame.
Oggi c’è fame di tutto; ho quattro sceneggiature ferme, pagate a piccoli step, che forse non vedranno mai la realizzazione.
Se chiamano Ugo Chiti qualche speranza in più c’è…
È chiaro che mi coinvolgono per questo motivo, ma non è detto.
Torniamo a Nuti: il successo vi ha travolto?
Non me, pensavo al teatro: una realtà miracolosa, con recensioni incredibili, dai critici più alti.
Il teatro ancora una salvezza.
Una sorta di mantello.
Soffriva e soffre le critiche?
Quello del teatro, non del cinema: sul teatro sono vulnerabile. Per fortuna è capitato raramente.
Invece il cinema…
(Pausa) Non sono proprio immune: OcchioPinocchio è stato massacrato.
Cecchi Gori lo cita sempre come disastro economico.
Lo so; la mia natura contadina mi ha sempre tenuto al riparo dal lusso.
Nuti, no?
Neanche Giovanni (Veronesi); (sorride) una sera Francesco mi fa: ‘Lo so, odi le discoteche, ma questa notte si fa tutti i locali fino a mattina’. È stato uno degli incubi più grossi.
Sera infinita.
Voglio avere il mio territorio e dentro quel territorio sentirmi a mio agio. Di quella sera ricordo le resse all’entrata, i buttafuori, i fan, le persone che si accodavano a noi, il caos.
Si rendeva conto che Nuti si stava perdendo?
(S’irrigidisce) Francesco non ha mai fumato uno spinello, mai presa la droga. Beveva, sì.
Un difetto di Nuti.
Non aveva voglia di uscire dal suo personaggio, per questo disse di “no” a Monicelli che lo voleva in un suo film. Invece possedeva ottime capacità attoriali, ma non è stato aiutato.
Giovanni Veronesi ha dichiarato di avere sensi di colpa su Nuti. Lei?
Non dovrebbe, si è speso tantissimo. Io sì: non ho fatto sacrifici.
Tipo?
Non guido la macchina e negli anni in cui lui era in ospedale o mi accodavo o niente. Invece quando mi vedeva erano sorrisi, mi prendeva la mano, cercava di interagire; (silenzio) era bello, lontano dal Nuti vincente, quando lo chiamava chiunque, quando la Rai lo voleva in trasmissione, o lui alzava il telefono per avere un’altra Ferrari. A me la parte vincente non apparteneva.
Per niente?
Una volta sono tornato con lui in autostrada su una Ferrari e sono stato scomodo: seduto basso, terrorizzato quando superava i camion.
Il lusso non è per lei.
Ma sì, è che non guido.
I colleghi la prendono in giro?
Si divertono; anni fa a Taormina prendiamo un premio per La stranezza e vinciamo una penna, io soddisfatto replico: ‘Che bello, scrivo solo con la penna’. Questa frase semplice, da fossile, ha scaturito una tale curiosità che dopo tutti mi hanno chiesto un selfie.
Scrive le sceneggiature a penna?
Perché quando scrivo un testo teatrale ho la necessità di marcare dei passaggi con un disegno, altrimenti me ne dimentico. Non uso nemmeno la macchina da scrivere.
Ma ha usato la macchina da presa come regista.
Due volte, poi ho smesso.
Come mai?
Con il teatro sei padrone di tutto, con il cinema no e poi devi avere un tipo di palle che a me mancano; (resta in silenzio) con La seconda moglie andai al Festival di Venezia e ripenso ai fischi contro Cecchi Gori (produttore del film).
Accanimento.
Critiche terribili su di lui e su Maria Grazia Cucinotta (la protagonista). Quella situazione mi stomacò.
Ci va al cinema?
Poco, sono rimasto al tempo in cui c’erano le storie; amo film potenti come Sentieri selvaggi o La valle dell’Eden. (Piccola interruzione, piccolo problema) Non sono bravo con il computer, ho sbagliato e mi hanno staccato la luce.
Lei chi è?
Uno che ama stare in campagna, ma non sa guidare un trattore. So zappare.