La Stampa, 13 aprile 2025
Intervista a Graydon Carter
Graydon Carter ha lanciato la sua newsletter digitale Air Mail nel 2019, dopo aver diretto per 25 anni Vanity Fair, esperienza che ha raccontato nel libro When the Going Was Good.
Lei ha passato la giovinezza a Trenton, Ontario, come è stata?
«Il Canada è molto freddo, la mia vita era sciare e giocare a hockey, sport molto amato anche da mio padre. Crescere in Canada ti tempra, perché se riesci a giocare a hockey a meno 30 tutto il resto sembra facile».
Si sente ancora canadese?
«Sì, oggi più che mai. I canadesi sapranno tenere testa a Trump. A loro piace essere chi sono, e sono pronti a combattere per non far parte degli Usa. Non so da dove venga fuori questa idea, se non dalla mente febbricitante di Trump, non conosco nessun altro americano che ne avesse mai parlato, e vivo in America da quasi mezzo secolo».
Capisce cosa sta succedendo negli Usa?
«No, non capisco nulla. A gennaio, l’America aveva un’economia invidiata da tutto il mondo, come anche gli americani. Ora siamo ostili o addirittura nemici con quasi tutti i nostri alleati tradizionali, ci siamo allineati con Paesi come la Russia e forse anche la Corea del Nord. È assurdo. Ogni mattina mi sveglio e vorrei non aprire gli occhi per guardare il giornale, perché da Washington non arrivano mai buone notizie».
L’America cambierà nei prossimi anni?
«Gli americani non tantissimo, l’America sì. In base a quello che riuscirà a fare Trump ci vorrà una generazione o forse più per riportare il Paese sul suo binario».
Lei si sente più editor o giornalista?
«Sono stato prima un editor e poi uno scrittore, e non sono mai riuscito a essere un giornalista investigativo. Ho scritto tanto, ma soprattutto di gente che non aveva nulla in contrario. Non sono mai stato un giornalista straordinario come quelli che avevo assunto a Vanity Fair. Sono curioso, motivato e molto corretto, e sono molto meglio come editor che come reporter. Penso di essere una persona molto gentile, che tratta tutti nello stesso modo».
Quando ha deciso di creare la newsletter digitale Air Mail si era ispirato alle bellissime buste bianche e blu della posta aerea?
«Sì, le adoro. Air Mail è come l’edizione del weekend di un giornale internazionale, una sorta di Vanity Fair settimanale. Amo gli scandali. Amo le storie di politica e di letteratura, facciamo molte recensioni. Amo le storie su chi sta dietro le quinte della cultura, come i registi e i produttori, invece delle star del cinema. Mi piacciono le storie sulle avventure. E mi piace l’umorismo».
Fa l’editor di ogni edizione?
«Di ogni parola. Abbiamo una sede in una bella casa vecchia del Village a due minuti da casa. È più facile che dirigere Vanity Fair, che era come una portaerei, mentre Air Mail è come un Riva di 10 metri, meno visibile, ma più divertente».
Crede che l’epoca delle riviste sia finita?
«No, le riviste di qualità dureranno a lungo. Le riviste dedicate a quello che trovate su Internet no. In America ci sono grandi riviste, come The Atlantic e New York Magazine, amo molto anche The Oldie e Private Eye di Londra. Le riviste saranno come il vinile nella musica, funzioneranno bene, ma non domineranno più il dibattito intellettuale come avevano fatto negli ultimi 80 anni».
Nelle sue memorie lei offre anche dei consigli, per esempio, scrivere il nome delle persone su entrambi i lati dei cartellini segnaposto?
«Quasi tutti mettono il nome su un solo lato, ma se sei a un tavolo lungo ti tocca cercare il tuo posto a sedere camminando lungo entrambi i lati, o girare intorno a un tavolo tondo. È molto più facile vedere il nome se è scritto su entrambi i lati, e sapere anche il nome del vostro vicino. Non so perché non lo fanno tutti, a Vanity Fair è stata la regola per 25 anni».
Nelle sue memorie dedica pagine a Anderson and Sheppard, il suo sarto londinese, e in alcune foto l’ho vista indossare un bel vestito con cravatta e gemelli, ma nel libro racconta il suo amore per le Lacoste bianche a maniche corte. Le indossa ancora?
«Ogni giorno da 15 anni! Non ho abbandonato i vestiti di Anderson&Sheppard, li uso per le occasioni speciali, ma siccome non vado più in ufficio sto regalando molti abiti ai miei figli e agli amici. Mi tengo una giacca da sera, con le code e la cravatta bianca, e due abiti per i matrimoni, i funerali e le cerimonie. Altrimenti, indosso le giacche da lavoro e le Lacoste».
Nel libro non parla di scarpe, quali modelli indossa?
«Ho 50 paia di splendide scarpe di pelle fatte a mano dei bei vecchi tempi, che indosso in circostanze speciali, per il resto mi metto le desert boot, una via di mezzo tra le scarpe di belle e quelle sportive».
È vero che se vede un oggetto di abbigliamento che le piace consiglia di comprarne tanti perché potrebbero andare fuori produzione?
«Riguarda soprattutto le donne, perché il loro abbigliamento cambia più drasticamente. Io ho comprato 20 paia di boxer di Brooks Brothers perché ho paura che possano chiudere, e ne ho ancora qualche paio che non ho nemmeno indossato, li tengo per il futuro. Se c’è qualcosa che vi piace, vestiti o altro, non abbiate paura di comprarne tanti esemplari, perché potreste non trovare più l’oggetto. Tutto quello che è buono esce di produzione».
Ci può dare un altro consiglio di cui non ha scritto nel libro?
«Oddio, posso darne tanti, ma sicuramente dovete sempre portarvi dietro un fazzoletto! Non esco mai senza, possono essere utili per tante cose, per asciugare, per esempio. Uso il mio fazzoletto venti volte al giorno per utilizzi più diversi».
Ha prodotto anche diversi documentari?
«Circa 15, come parte del giornalismo che facevamo a Vanity Fair. Ne faccio circa uno all’anno, non sono il regista, ma propongo idee e cerco i fondi. Quest’anno ne esce uno su Karl Lagerfeld, e qualche anno fa ne avevo fatto uno su Gianni Agnelli».
Conserva ancora lo stesso entusiasmo degli esordi?
«Ne ho molto di più. Nessuno alla mia età possiede la stessa energia che aveva a 30 anni, la carica intellettuale non cambia».