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 2025  aprile 13 Domenica calendario

Luca Guadagnino: "Un buon regista sa sempre come aggirare la censura"

«Sono una persona irriducibile di fronte a ciò che vuole, non so se conosco davvero il concetto di astinenza. Riesco sempre a ottenere quello che voglio». Sfrontato, temerario, ambizioso, Luca Guadagnino, nato a Palermo nel 1971, punta i suoi occhi color carbone sull’interlocutore e inizia un’intervista che somiglia a un ammaliante strip-tease, in cui si mostra a poco a poco, tra bugie fascinose e verità convinte: «Ahimè – sospira – alle volte essere fatto in questo modo diventa un problema, si può apparire ossessivi». Venerato da un pubblico di giovanissimi che, dopo Chiamami col tuo nome, lo ha promosso regista di riferimento, meritevole, tra le mille doti, di aver scoperto e lanciato il divo Timotheè Chalamet, Guadagnino è un autore che punta sempre in alto, con coraggio, e anche con qualche picco di intemperanza, come è accaduto quando, durante gli ultimi Golden Globes, ha lasciato la sala in piena cerimonia, dopo l’annuncio della vittoria di Emilia Perez e la sconfitta dei suoi due film in lizza, Challengers e Queer.
Che cos’è per lei un’ossessione?
«È uno stato d’animo che ha a che fare con il desiderio di incontrare qualcosa o qualcuno e con la sensazione che questo debba essere un evento assolutamente inevitabile. Ecco, l’ossessione scatta quando perseguire un certo obiettivo diventa un atto ineludibile».
È un regista italiano che da tempo lavora negli Stati Uniti, con star e produzioni internazionali. Che cosa pensa di quello che sta accadendo nell’America della presidenza Trump?
«Finora ho sempre messo in atto, nel mio lavoro, tutte le politiche che si possono riferire alla diversità, all’equità, all’inclusione. Trovo che questa torsione bigotta della politica statunitense sia preoccupante. Bisogna rispondere continuando a esistere, a occupare gli spazi, e a fare le cose come si sono sempre fatte».
Cioè?
«Con il mio prossimo film, di cui non voglio ancora parlare, non avrò alcun timore di andare avanti nel tipo di ricerca che mi interessa fare. Ovvero nella tensione a vedere e raccontare ogni forma di personalità, in tutte le sue espressioni».
In Turchia “Queer” (dal 17 nei cinema con Lucky Red e con il divieto ai 14 anni) è stato censurato perché considerato un film “dai contenuti provocatori, che possono disturbare l’ordine pubblico”. Che valore ha per lei, oggi, la censura?
«Su una rivista di cinema inglese ho letto una volta un’inchiesta in cui veniva posta a tanti registi la stessa domanda, ovvero “che cosa farebbe se potesse girare un film senza limiti di budget e sotto il suo assoluto controllo”. La risposta più intelligente l’aveva data John Boorman dicendo che non avrebbe mai accettato l’incarico, perché, in realtà, i limiti servono, così come l’idea di un controllo che non parta solo da se stessi. Insomma, questa concezione della censura come qualcosa da spazzare via a tutti i costi mi insospettisce un po’».
Si spieghi meglio.
«Quando in America era in vigore il codice Hays c’è stato un grande cinema realizzato apposta per aggirarlo. Penso anche a certe opere sovietiche, piene di metafore, fatte con l’obiettivo di eludere la censura, oppure ai titoli Usa degli Anni ’40 e ’50, che interpretavano il reale attraverso la messa in pratica di un sistema freudiano. Pellicole straordinarie, che ribadivano il potere del linguaggio molto di più di quanto possa farlo un’idea astratta e falsamente libera di abolizione della censura. Insomma, dateci pure la censura, penseremo noi a trovare i modi per schivarla».
Nei suoi film la musica è sempre molto importante, ed è anche una delle ragioni per cui il suo cinema è tanto amato dai ragazzi. Come la sceglie?
«Il mio obiettivo è utilizzare la musica come un personaggio che faccia corpo a corpo con le performance degli attori. Anche se, in realtà, vorrei riuscire, una volta, a fare un film libero dalla musica».
Perché quella della musica è una presenza così determinante?
«La musica aiuta ad attraversare i ponti fra le epoche e fra i diversi momenti storici, superando tutti i più ottusi divieti».
Nel suo ultimo film “Queer” i Nirvana sono fondamentali, come i protagonisti della storia, Lee (Daniel Craig) e Allerton (Drew Starkey). Perché?
«Kurt Cobain è un artista immenso che ha vissuto un dolore cosmico, è stato molto vicino a William Burroughs, non solo idealmente, per via della sua sofferenza emotiva, ma anche perché si conobbero, diventarono amici, facevano le gare di spari con i fucili…Trovo che l’esperienza dei “Nirvana” sia molto sentita dalla generazione zeta e lo sarà ancora per molto, la loro musica mette in collegamento il grunge con un guru fuori dal tempo come Burroughs».
Come è entrato in contatto con il romanzo di Burroughs?
«È come se il libro mi fosse venuto incontro…L’ho letto per la prima volta nel 1988 a Palermo, nella libreria Sellerio in via delle Croci, dove passavo ore ed ore. I commessi mi facevano fare quello che volevo, anche leggere libri che non avrei potuto comprare perché non avevo i soldi, seduto su uno sgabello. Fui attratto dalla copertina e da questo nome, Burroughs, che mi suscitava una grande attrazione, non so ancora dire perché».
Alla fine lo comprò?
«Sì, trovai i soldi per prenderlo, lo lessi, e rimasi completamente incantato dal potere immaginifico della parola dell’autore. Si potrebbe immaginare che il motivo di questa fascinazione fosse legata al mio essere un giovane omosessuale in fiore, ma non era questa la ragione. Di Queer mi aveva colpito il modo così deflagrante, provocatorio, libero, con cui la lingua veniva usata, e poi i personaggi, così impegnati nella ricerca di una verità dell’esistenza».
Burroughs ha scelto di dare al racconto un titolo che corrisponde a un modo dispregiativo di apostrofare gli omosessuali. Quanto sono importanti le parole in un momento storico come quello che stiamo attraversando?
«Credo che Burroughs non si ponesse in alcun modo il problema che il titolo potesse apparire offensivo. Il romanzo è uscito quasi quarant’anni dopo essere stato scritto, quello che conta è il suo intrinseco potere, non certo possibili attualizzazioni che lasciano il tempo che trovano».
Che cosa ha scoperto portandolo sul grande schermo?
«Con lo sceneggiatore Justin Kuritzkes ci siamo posti in maniera ostinata la domanda su quello che l’autore volesse dire, e anche sulla possibilità che ci stesse nascondendo un segreto. Abbiamo cercato il filo nascosto nel tessuto del racconto e abbiamo convenuto che fosse la fragilità amorosa, il dolore profondo di un amore trovato e negato. Queer è anche un po’ una detective story, offre indizi per farci capire che, dietro la repressione, c’è il vicendevole desiderio sconfinato dei due protagonisti».
Che cosa si prova dopo un’impresa così coinvolgente, c’è il pericolo di sentirsi svuotati?
«Ha presente il film di Bernardo Bertolucci Little Buddha? Si apre con le mani dei monaci tibetani impegnati sistemare granelli di sabbie colorate, in qualche luogo che non conosciamo. Alla fine del film, quando la storia è conclusa, si vede che quei monaci stavano facendo un mandala e che una delle loro mani ci passa sopra per distruggerlo. È il senso dell’impermanenza, della transitorietà di tutto».