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 2025  aprile 13 Domenica calendario

Intervista a Mimmo Paladino

«Quello che avviene nello studio entra sempre dalla finestra», racconta sull’impegno dell’artista Mimmo Paladino, 76 anni, colonna della Transavanguardia, beneventano di Paduli di casa a Milano. E lui nel suo appartamento all’ultimo piano di un palazzo in zona Moscova la tiene bella aperta, tanto che il sole illumina le tele da completare, il tavolo pieno di matite e pennelli e una foto di Borges scattata dall’amico e vicino Scianna. Una scultura di Paladino, Sant’Elmo, è il fiore all’occhiello del Padiglione Italia all’Expo di Osaka, una sua mostra da Massimo De Carlo ne sancisce il ritorno a Londra dal 29 aprile al 28 maggio e per novembre si prepara una sua antologica ai Musei di Perugia.
Com’è nata la sua passione?
«I miei genitori erano separati, mio padre stava in Sudamerica, mia mamma a Napoli: sono cresciuto a casa di mia nonna con mio zio Salvatore che dipingeva. A 15 anni mi portò a vedere la Biennale del 1964 dove scoprii la Pop art con Rauschenberg che mischiava pittura e oggettualità. Ho sempre disegnato e conosciuto le avanguardie. Ricordo i movimenti letterari napoletani degli anni ’50 dove arrivavano personaggi come Sanguineti e Eco. Io stavo là e ascoltavo».
Come si è formato?
«Nessuna accademia, solo il liceo e a Milano ho lavorato in un laboratorio grafico. Poi il mosaico, la scultura, e la fotografia che mi ha avvicinato al cinema. Vent’anni fa Capodimonte mi chiese una mostra su Don Chisciotte e con Lucio Dalla e Peppe Servillo feci il film di 20 minuti Quijote. Lo vide Marco Muller e chiese di allungarlo per ospitarlo a Venezia».
È vero che ascolta la musica per dipingere?
«Philip Glass, Arvo Part, Laurie Anderson: un mondo affine alla pittura. Ho lavorato con Brian Eno. De Gregori ha passione per l’arte e siamo diventati così amici che l’ho coinvolto nel mio secondo film La divina cometa».
Il suo inizio è stato al Nord?
«Tra Milano, Torino e Modena: la mia intuizione fu di non andare a Roma. Da un lato erano gli Anni di piombo e per strada non c’era nessuno, dall’altro la scena artistica ribolliva. La mia mostra da Mazzoli a Modena, galleria che già lavorava con Chia e Cucchi, fu un punto di partenza importante in un momento in cui si voleva lasciare un concettualismo che tutti avevano praticato. Dipinsi Silenzioso, mi ritiro a dipingere un quadro, che esposi da Giorgio Persano a Torino, nella casa dell’Arte povera. Mi segnalò a lui Pistoletto, che come Fontana aiutava i giovani. Tra i visitatori una sera arrivò Mario Merz, al contempo furibondo ed entusiasta, perché anche lui aveva iniziato dipingendo».
C’era un dialogo tra Arte povera e Transavanguardia?
«All’inizio loro erano diffidenti poi Merz e la Galleria Toselli di Milano si dimostrarono aperti: era un deposito in via de Castillia, dove ora c’è Citylife, esponeva Pistoletto, i Merz, Calzolari. Un punto di riferimento per noi ragazzi, che accolse De Maria e me. Venne pure Ettore Sottsas, grande designer che mi aiutò molto».
E il critico Bonito Oliva, che coniò la definizione di Transavanguardia, quando arrivò?
«Nel 1980 con la Biennale da lui curata, ma prima Jean-Christophe Ammann, direttore della Kunsthalle di Basilea, organizzò una mostra su di me, Chia, Clemente, Cucchi, De Maria più Tatafiore e Ontani. A ridosso arrivò Edy de Wilde dello Stedelijk Museum di Amsterdam. Poi gli americani a partire da Marian Goodman».
Tra colleghi della Transavanguardia vi frequentavate?
«No, non ci siamo mai sentiti parte di una vera corrente. Solo con De Maria, che vive a Torino ma è campano, ci sentivamo. Entrambi usavamo la fotografia, quando il concettualismo cominciava a formalizzarsi in un’immagine, ma sentivamo necessario passare a una libertà espressiva diversa».
Cosa non bastava della fotografia?
«Il procedimento lungo in cui la mano dell’autore si perdeva, così affiancavo dei disegni».
Poi tornò alla pittura?
«A me piace tutto, ma all’epoca dipingere su tela pareva quasi scandaloso. Mazzoli con l’occhio lungo mi disse “Vai a Ravenna e ispirati ai mosaici"».
Quando ha avuto la sensazione di essere riconosciuto?
«Ho sempre lavorato tanto, non so stare fermo. A un certo punto mi sono sentito richiesta dall’estero. Prima mi riconosceva solo mio zio Salvatore, che diceva “Questo è buono” indicandomi una strada».
Come vede l’Italia di oggi?
«Un artista difficilmente sente i confini, vuole essere universale, però una patria ce l’ho se mi sono sempre ispirato alle mura di Benevento, anche se mi sono appassionato pure alle culture afrobrasiliane».
È di sinistra?
«Da giovane lo ero, feci pure un quadro per il Festival dell’Unità di Benevento, che poi sparì, con un grande cielo e una frase in rosso di Mao Zedong. Simpatizzavo per l’idea rivoluzionaria e sociale».
Vota?
«Votavo, mi piacevano Berlinguer e Bassolino».
E Meloni?
«Ha una romanità verace che non amo, fosse napoletana sarebbe meglio. Dovrebbe incoraggiare l’arte riducendo l’Iva per aiutare giovani artisti, gallerie, corniciai, colorifici, falegnami... Poi leggo di scelte curiose come Pordenone capitale della cultura, e Pompei no? L’arte va oltre la politica, per esempio le migliori architetture risalgono al fascismo e il Futurismo è stato condannato ingiustamente per anni».
Come ha visto cambiare la scena artistica?
«Il mondo dell’arte è più chiuso, isolato e omologato. Non ci sono più correnti. Un giovane negli anni ’70 poteva confrontarsi con tanti mondi».
Quello che connota l’arte è l’espressività?
«Sì, l’arte è l’espressione del pensiero e della capacità umana. Deve arrivare a tutti, se no probabilmente c’è qualche difetto. E può interfacciarsi con altre discipline simili come la musica nel creare qualcosa che non c’è».
Trova mai l’arte contemporanea criptica?
«Mi capitava con il concettualismo, in cui la forma spariva e si diluiva in una parola sul muro. Sono rispettoso di Duchamp, ma non è il mio. La sua opera ha bisogno di una galleria per diventare tale, idea che si trascina fino alla banana. Picasso no, la sua arte si impone in qualunque ambiente».
E Cattelan?
«È sulla prima linea, ma funziona perché è ironico. Oggi vedo un appiattimento dei linguaggi nell’arte visiva, a parte alcuni artisti come Tony Cragg o Julian Schnabel, per questo mi interessa di più il cinema e vorrei fare un terzo film, magari su Borges».
Un italiano che le piace?
«Lo scultore Sassolino mi sembra interessante, ma tra i pittori regna un figurativo kitsch che la mia generazione ha buttato alle ortiche. Chi dipinge oggi, e pure chi fa critica, non conosce la storia della pittura e favorisce un mercato speculativo per cui certe opere costano più di Caravaggio».
I suoi celebri segni sulla tela che senso hanno?
«Vengono dall’amore per i simboli arcaici, le sculture monumentali, la Magna Grecia. La mia origine visiva è nei frammenti delle mura longobarde di Benevento. Lì ho preso l’idea di una grande parete con frammenti romani o egizi».
Le teste che ricorrono nelle sue opere sono la stessa cosa?
«Probabile, perché sono anch’esse frammenti».
Sono pure delle maschere?
«A volte e questo viene dall’attrazione per le forme africane come fu per Picasso, Brancusi e Modigliani».
E il cavallo?
«È più un archetipo, una geometria, un’architettura, non un segno, non un gesto. L’arte è intuizione, capacità, ma alla base c’è un pensiero logico come nella prospettiva di Piero Della Francesca».
Alla fine è un po’ concettuale anche lei?
«Alla fine sì».