La Stampa, 13 aprile 2025
Intervista a Umberto Pelizzari
Umberto Pelizzari, 59 anni e 16 record di apnea, primo uomo a scendere a 150 metri di profondità, da bambino aveva paura dell’acqua. Con grande senso pratico la madre lo spedì a un corso di nuoto quando aveva 5 anni. E così ne cambiò il destino.
Da una fobia alla passione che segna la vita: quando è scoccata la scintilla?
«In piscina mi annoiavo, allora facevo a gara con i compagni a chi tratteneva di più il fiato. È partito tutto da lì. Qualunque occasione era buona per misurare le mie capacità: ero malato di apnea».
Nessuno ha cercato di guarirla?
«In terza elementare me la sono vista brutta. Avevo come record due minuti e mezzo e avevo deciso di arrivare a tre. Ero in fondo alla classe e avevo chiesto ai compagni di banco di controllarmi. Si figuri un po’ un bambino di otto anni che assistenza ti può dare. Non sapevo nulla di respirazione e rilassamento. Quando mi sono sentito pronto ho fatto partire il cronometro. La maestra si è accorta che qualcosa non andava. Io intanto iniziavo a cambiare colore, poi sono arrivate le contrazioni: sono gli impulsi inviati dal cervello quando l’organismo ha disperato bisogno di ossigeno».
L’insegnante quando se n’è accorta?
«A 2 minuti e 50 mi ha visto in crisi ed è corsa verso di me. Ero viola, ma vicino al record. Diceva “Umberto che ti succede?” Pensava a un attacco epilettico. Io cercavo di tranquillizzarla per altri 10 secondi. A 3 minuti e 02 ero lì per svenire, ma festeggiavo. La maestra ha capito e mi ha tirato una sventola d’altri tempi».
Ne valeva la pena.
«Sono stato sospeso per due giorni e ho preso una sberla anche da mio padre. Quando sono ritornato in classe l’insegnante mi ha detto: “Se non mi fai più pigliare certi spaventi, l’ultimo giorno di scuola ti darò l’indirizzo di Enzo Maiorca. E così ha fatto».
Maiorca è il primo uomo a essere sceso in apnea a 50 metri, sfidando la scienza che lo riteneva impossibile. Lo ha contattato?
«No. Ero un bambino e non esistevano email e internet. Che cosa potevo dirgli? Però ho conservato quel foglio in un cassetto».
E intanto avanti con il nuoto.
«Fino ai 18 anni il mio mare è stato la piscina di Busto Arsizio, poi ho deciso che volevo fare l’apneista. Chiaramente non c’era internet, non c’erano corsi, stage, manuali di apnea, non c’era nulla. C’erano Enzo Maiorca e Jacques Mayol, il primo a scendere a cento metri».
Di Maiorca aveva l’indirizzo…
«Non mi ha risposto. Tempo dopo, a un evento a cui eravamo ospiti entrambi, me ne ha spiegato la ragione con una battuta: “Ti eri presentato come apneista emergente, ma gli apneisti si immergono”. Siamo diventati amici, conservo ancora quel foglietto con il suo indirizzo a Ortigia. Ma il mio maestro è stato Mayol».
Dove l’ha incontrato?
«A Parigi dove proiettavano Le Grand Bleu, la storia del dualismo Maiorca-Mayol. A cena mi ha avvicinato: “Facciamo qualcosa insieme”. Sapeva dei miei record, ma temevo che si sarebbe dimenticato dell’invito».
E invece stavolta la chiamata arriva.
«L’anno successivo mi ha invitato all’Elba da lui. Ricordo l’emozione. Ho iniziato a scendere anche più a fondo di lui, me la tiravo un po’. Non che ci volesse molto, io avevo 25 anni, lui 70. Alla fine gli ho chiesto: “Come ti sembro?”. Risposta: “Tu di apnea non capisci nulla”. Ma come, ho un record mondiale… Tu scendi troppo di fisico, di muscoli, per te ogni tuffo vuol dire conquistare qualcosa in termini di profondità, di tempo, sei troppo agganciato alla performance. In quel modo non capirai mai quanto ti può dare l’apnea in termini di sensazioni, di emozioni, di piacere. In ogni apnea devi avere un’emozione, una sensazione migliore rispetto al tuffo precedente».
Sembra banale: in qualunque sport l’obiettivo è migliorare.
«Cambia il modo. Mayol mi ha portato tutti i giorni in una baia profonda dieci metri e mi ha lasciato lì. Per vincere la noia ho iniziato a scendere e salire. All’improvviso è scattato il meccanismo giusto. Mi sono visto dall’esterno, ho imparo a rilassarmi».
Come può regalare sensazioni piacevoli la fame d’aria?
«Per andare sott’acqua devi staccarti dal tuo essere terrestre. Puoi stare un mese senza mangiare, una settimana senza bere, ma devi respirare. Con l’allenamento mentale cerchi di arrivare dove il tuo corpo, la tua fisiologia non ti permetterebbe. Devi vincere un bisogno primario, e lo vinci rilassandoti in modo graduale».
Il suo primato di 19’’56 in apnea statica la avvicina a un mammifero marino. Ma come ha fatto a mancare per 4 secondi il muro dei 20 minuti?
«Si trattava di un test medico. Cercavamo di capire un po’ di più delle morti bianche dei neonati. Ho ventilato con ossigeno puro, poi mi sono posto il limite dei 20’, ma per un malinteso ho cominciato a trattenere il fiato con 4 secondi di anticipo».
Mayol è arrivato a 100 metri, lei a 150, l’austriaco Herbert Nitsch a 253. Che cosa succede laggiù al nostro organismo?
«Ogni 10 metri di immersione la pressione aumenta di un’atmosfera. A meno 150 hai 16 atmosfere, pari a 16 chili di pressione su ogni centimetro quadrato del corpo. I polmoni diventano grandi come mele, ma attivano delle protezioni: c’ è un richiamo di sangue che riempie il torace e impedisce che imploda. Un altro automatismo è la bradicardia: il cervello distribuisce quel poco ossigeno che c’è nel modo più lento possibile, oltre i 100 metri arriviamo a 12 battiti al minuto. È un mondo diverso, con una pressione fortissima, dove non hai rumori, non hai luce, la forza gravitazionale c’è ma è differente da quella per cui siamo stati fatti».
Nell’apnea ogni atto è studiato, ma l’imprevisto fa parte del gioco. Nel ’74 Maiorca reagì piuttosto male a un incidente con un cameraman.
«Sì sì, è uno dei video più cliccati alla voce apnea su youtube. Maiorca si scontrò con questo operatore Rai, Enzo Bottesini, un campione del Rischiatutto di Mike Bongiorno che riprendeva il tentativo di record. Maiorca riemerse e tirò una bestemmia, oltre a una serie di parolacce. La Rai tolse subito l’audio, e poi anche il video perché si capiva il labiale».
Una sua frase: non sei tu che vinci, è il mare che ti lascia vincere.
«Il mare è una scuola di umiltà. Non puoi portare in acqua il tuo essere terrestre che spacca tutto».
Mai avuto incontri ravvicinati e inaspettati in acqua?
«Sì, con i capodogli. Ero nell’Oceano Indiano insieme al mio cameraman Fabio Ferioli. Eravamo piccoli piccoli in mezzo al blu enorme infinito, quando il capobranco si è avvicinato a noi. Abbiamo sentito una vibrazione addosso: stava facendo una scansione con il sonar di quei due Fantozzi e Filini. Quando ha capito che non potevamo rappresentare un pericolo ci ha lasciati perdere».
In un’altra foto lei è con due delfini. La riconoscono come un uomo speciale?
«No, secondo me mi vedono come uno goffo che cerca di imitarli. È il motivo per cui sorridono!».
Che cosa ha fatto l’apnea per la medicina?
«Ha insegnato molte nozioni di fisiologia. Oggi in camera iperbarica si curano più di cento patologie».
Oggi di che cosa ha paura?
«Di nulla, ma non perché io sia Superman: nell’apnea non ci vuole coraggio, ma programmazione e allenamento. Se hai paura, oltre certi limiti non puoi spingerti».