Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  aprile 13 Domenica calendario

Intervista a Bruno Bozzetto

A 87 anni, Bruno Bozzetto, il papà italiano dell’animazione, arriva all’appuntamento nel suo Studio attraversando Bergamo in sella a una bici elettrica. E se non fosse per il traffico che dalla città porta al Lago d’Iseo sarebbe arrivato in bici anche fino a Riva di Solto dove, dopo due giorni di kermesse bozzettiana, gli hanno appena conferito la cittadinanza onoraria. Come onorata è la lunga strada percorsa nel campo dell’animazione, genere per cui in Italia è riconosciuto come il pioniere assoluto (dal 1958: anno del suo film d’esordio, Tapum! La storia delle armi) e la sua arte omaggiata a livello internazionale. Non a caso, “La Pop Art animata di Bruno Bozzetto” recita il titolo della mostra antologica che, fino al 15 novembre, gli dedica il Museo Interattivo del Cinema di Milano. Un universo di storie di celluloide, di personaggi animati scaturiti da un oggetto domestico, un“piano da stiro”. «Quella è stata la grande invenzione di mio padre, l’ingegner Umberto Bozzetto che su quell’asse da stiro mi permise di fissare i rodovedri: i fogli in cellulosa su cui disegnare, che poi fotografavo con la mia macchina, una Paillard Bolex, appesa perpendicolarmente». Con lo Studio Bozzetto a Milano, nel 1960 nasce la prima vera “factory” italiana dei film di animazione. «Uno Studio che prima di tutto, era e rimane anche qui a Bergamo, una famiglia. Io non ho mai avuto dipendenti, ma amici che sono diventati dei validi collaboratori con i quali confrontarmi, dalla progettazione alla realizzazione dei film fino alle prime colonne sonore che per me le componeva il grande Enzo Jannacci. In Studio abbiamo cominciato con Guido Manuli, il mio braccio destro, Giancarlo Cereda, Giuseppe Laganà che è morto una decina di anni fa e l’altro giorno purtroppo ho saputo che ci ha lasciati anche Giovanni Mulazzani. Nel gruppo entrò anche un amico di famiglia, un professore che insegnava cinema all’Università, Attilio Giovannini, ed è stato lui un giorno sulla spiaggia a dirmi: “Bruno, perché non fai un lungometraggio?”. E così nel 1965 ho realizzato West and Soda. Prima però c’è stato il corto Tapum! La storia delle armi.
«Tapum! come la canzone popolare della Grande Guerra, fu un altro suggerimento prezioso di mio padre. Il messaggio del film purtroppo è quanto mai attuale: l’uomo non impara mai niente dalla storia e così compie sempre gli stessi errori, a cominciare dalle guerre infinite. A 16 anni ho letto un libro che mi ha segnato profondamente, L’istinto di uccidere di Robert Ardrey. L’autore spiega: ma se l’uomo, uno degli animali più piccoli in natura, che non ha artigli d’aquila né denti leonini è riuscito a far fuori tutti gli animali della terra, allora vuol dire che possiede il maggiore istinto distruttivo». Torniamo a West and Soda, film che ha anticipato il genere “spaghetti western” lanciato da Sergio Leone.
«West and Soda era pronto dal 1963 e solo per problemi sui tempi di realizzazione è uscito un anno dopo Per un pugno di dollari che è del ’64, quindi se vogliamo sì, il primo spaghetti western è mio, ed è un film d’animazione. Ma lo dico piano perché ho conosciuto Sergio Leone ed era un duro. Andai a Roma a conoscerlo e mi ritrovai davanti un uomo in vestaglia, scottato dalle critiche negative che il film aveva ricevuto e preoccupato solo di sapere i dati degli incassi della sera prima nei cinema. Comunque, Sergio Leone è stato un grande del cinema e anche il primo produttore di Carlo Verdone, che secondo me è l’incarnazione del mio Signor Rossi».
Dichiarazione importante che smentisce tutti quelli che nel suo personaggio iconico dell’uomo medio hanno sempre visto il Fantozzi di Paolo Villaggio e Il signore di mezza età di Marcello Marchesi. «C’è sicuramente del fantozziano nel Signor Rossi. Ma più vado avanti e più mi convinco che l’uomo medio di alcuni personaggi di Verdone, che considero un uomo intelligente e raffinato con il quale mi piacerebbe lavorare, siano molto affini al mio Signor Rossi, specie il mio ultimo corto Signor Rossi Boomer (a fine maggio verrà presentato a Pescara, a “Cartoons on The Bay 2025”). Così come ai tempi, era affine, anche fisicamente, all’Uomo di mezza età inventato da Marcello Marchesi, un genio dell’umorismo: assieme abbiamo lavorato a tanti caroselli e quelli hanno portato i soldi veri allo Studio, altro che i film...». L’umorismo e gli aforismi geniali di Marchesi rimandano a quelli di Flaiano che ha letto avidamente e alla sua passione per il cinema di Federico Fellini. «Fellini mi aveva chiamato perché facessi l’animazione dei titoli di Ginger e Fred, poi non se ne fece nulla. Mi terrorizzava il pensiero di dover lavorare per il mio idolo, anche perché Fellini disegnava da Dio. Se avesse sbagliato treno e fosse salito a Milano, Fellini sarebbe diventato il nostro Miyazaki. Ha scelto Cinecittà, e visti i capolavori che ci ha lasciati è stata una scelta azzeccata».
Anche lei l’ha azzeccata visto l’encomio ricevuto dalla dinastia dell’animazione: i Disney. «La candidatura all’Oscar del 1991 per il film Cavallette non è paragonabile all’onore ricevuto per una mia mostra allestita al Museo Walt Disney di San Francisco. Mostra voluta dalla figlia, Diane Disney, che all’inaugurazione faceva da Cicerone nelle sale e nella dedica del catalogo alle mie figlie ha scritto parole in cui mi associava a quel genio del padre. Con l’arrivo della Coca- Cola quella grande bottega di famiglia è diventata un’altra cosa e oggi la memoria di Walt Disney in America non è adeguatamente rispettata». In compenso in America, a differenza che da noi, nel 1976 capirono subito il suo Allegro non troppo, film che aveva stregato Piero Angela che poi la chiamò a lavorare a Super Quark. «Mai lavorato con una persona e un professionista migliore di Piero Angela. Ma la verità è che fui io a proporgli di realizzare un film tratto da un suo libro, ma l’idea non lo convinceva. Poi un giorno mi telefona e mi dice: “La Rai mi da’ una rubrica. Oggi su l’Espresso ho pubblicato un articolo sull’energia, prova a fare uno storyboarding e vediamo che succede”. Detto, fatto, gli mando il filmato e risponde: “Bellissimo, facciamone altri”. Ne abbiamo fatti 100, 60 seri e 40 in pillole». Molti di quei film per Super Quark parlavano di animali, come il cane Doggy. Ma Dio non compare ma nei suoi disegni?
«Doggy che è una creatura del Covid, in una striscia dice: “Noi regaliamo amore infinito senza dire una parola”. I cani sono sempre così come li vedi, mentre l’uomo ha dieci facce, cambia continuamente e spesso in peggio. Dio l’ho citato tante volte in Mister Tao ma da sempre penso che tutti i guai del mondo sono cominciati con la fine del politeismo. Io credo più in un albero, a un filo d’erba o a una formica, credo nell’energia vitale e alle emozioni che, attimo per attimo, mi regala il mistero meraviglioso della natura».