Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  aprile 13 Domenica calendario

Il fronte dei Brics ora sfida «The Donald»

C’è un mondo fuori dall’Occidente e si chiama Brics. Quello che all’inizio era un velleitario club formato da cinque Paesi dall’altissimo potenziale economico, oggi è una super potenza alternativa all’asse euro-atlantico, in grado di sfidare il presidente statunitense Donald Trump nella guerra commerciale. L’ex gruppo Brasile- Russia-India-Cina-Sudafrica si è già dall’anno scorso allargato a Paesi di tutti i continenti, dal mondo arabo all’America Latina, dall’Africa al Sud-Est asiatico. Vale adesso quasi il 40% del Pil globale, più del G7, e nel 2045 rappresenterà tre delle maggiori quattro economie del mondo: Cina, India e la nuova entrata Indonesia. A differenza del vecchio Occidente, questo asse va d’accordo su tutto: dalla guerra in Ucraina, per la quale si invoca la pace e non si accusa l’alleato Vladimir Putin, al flirt con regimi autocratici (dei Brics ora fa parte l’Iran e si parla del Venezuela), fino ovviamente agli affari. Per smarcarsi dalla dipendenza dal dollaro, gli ex emergenti hanno persino lanciato la propria valuta, il Brics, di cui si sa ancora pochissimo.
L’assenza della stampa occidentale al vertice Brics dello scorso ottobre a Kazan, in Russia, ha infatti impedito che si prendesse coscienza che mentre tutte le attenzioni sono su Trump, anche “gli altri” fanno sul serio. Ma quest’anno non sarà così, poiché la presidenza spetta al Brasile di Lula, alleato pure dell’asse atlantico e proprio per questo ago della bilancia, tra l’incudine e il martello. A differenza di quello di Kazan, il meeting che si terrà a inizio luglio a Rio de Janeiro svelerà alla luce del sole le contromosse di quello che il presidente brasiliano chiama romanticamente il “Global South” ma che in realtà è una macchina da guerra, pronta a rispondere colpo su colpo a Washington. L’idea di una valuta distinta dal dollaro è per permettere a chi è colpito da sanzioni, come Russia e Iran, di dribblarle, ma pure per proteggersi dalle continue oscillazioni della valuta Usa, ultimamente in balia del tira e molla sui dazi, e infine per rafforzare i rapporti commerciali. Mentre noi ci preoccupiamo solo delle tariffe, Mosca e Pechino stanno flirtando al punto che nel Paese asiatico il “made in Mosca” è il nuovo “made in Italy”: altro che borse e vini italiani, il benchmark della qualità e dello status symbol oggi è comprare russo e persino falsificare prodotti cinesi spacciandoli per russi. Lo dicono i dati della banca Qichacha: quasi mille aziende cinesi sono specializzate in prodotti russi e impazzano negozi e supermercati a tema Russia. Non solo: secondo una ricerca dell’Università di Tsinghu, due cinesi su tre hanno una buona opinione degli ex sovietici, un dato impensabile fino a pochi decenni fa. Sui dazi la Cina è andata allo scontro a viso aperto con gli yankees, con tariffe reciproche lunari e Pechino che ridurrà l’importazione di film da Hollywood. Il Dragone vanta un surplus commerciale con gli Usa di quasi 300 miliardi di dollari e negli anni ha ridotto lo svantaggio tecnologico costruendosi una corsia preferenziale per l’accesso alle materie prime “critiche”, quelle che servono per semiconduttori, auto elettriche e altro ancora della transizione energetica. Una posizione privilegiata che la Cina si è costruita nel tempo grazie ai Brics e soprattutto al Brasile, il suo primo fornitore di materie prime e proprio per questo graziato da Trump con tariffe solo al 10%, per evitare che il rivale asiatico si accaparri definitivamente il ricco repertorio di commodities sudamericano (petrolio, litio, carne, caffè, cacao, zucchero, soia etc). Lula ha risposto alle ostilità disponendo controdazi per i quali ha votato a favore persino l’opposizione bolsonarista, che pure strizza l’occhio al tycoon. Intanto è proprio il Brasile che sta aiutando gli Usa alle prese con la crisi delle uova: da gennaio a marzo le esportazioni di uova verso il partner nordamericano sono esplose del 346% rispetto ad un anno fa, a 2.705 tonnellate, e gli Usa sono diventati i primi importatori di uova dal Brasile, doppiando gli Emirati Arabi.