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 2025  aprile 13 Domenica calendario

Silvio Soldini: «C’è speranza per i film fatti senza i soliti attori. Quando mio fratello Giovanni vinse la prima regata scoppiai a piangere, mi stavo separando»

Sorpresa numero uno: a sedici giorni dall’uscita nelle sale il nuovo film di Silvio Soldini, Le assaggiatrici, con quasi due milioni di euro di incassi è il secondo più visto in assoluto nel nostro Paese, primo fra gli italiani. Calcolando il fatto che non è proprio un lavoro leggero leggero e che i numeri nel mondo del cinema sono quello che sono, è un risultato clamoroso. Sorpresa numero due: questo film – bello ed emozionante – è il frutto di una produzione nostrana ma è girato in Belgio, completamente in tedesco, con attrici tedesche. Non succede tutti i giorni. Soldini racconta la storia di sette donne che nel novembre del 1943 furono costrette per un anno a subire una sorta di roulette russa: fare da cavie per Hitler nella sua Tana del Lupo, il rifugio segreto vicino all’attuale cittadina di Kętrzyn, in Polonia, all’epoca Prussia Orientale. In pratica, due volte al giorno dovevano mangiare le pietanze preparate per lui un’ora prima che gliele servissero. Se sopravvivevano, e quindi il cibo non era stato avvelenato, il Fuhrer poteva finalmente nutrirsi senza rischi.
Nel 2018 la scrittrice Rosella Postorino da questa vicenda vera – svelata soltanto nel 2012 dall’unica sopravvissuta, la 94enne Margot Wolk – realizzò il romanzo omonimo tradotto e venduto in 46 Paesi. Cortese e disponibile, ma non proprio un chiacchierone, Silvio Soldini ha 66 anni, tre figli fra i 36 e i 30, ed è fratello del celebre velista Giovanni, più giovane di lui di otto. Questo è il suo dodicesimo film (fra questi L’aria serena dell’ovest e Pane e tulipani).
Se li aspettava questi incassi?
«Ovviamente no. È stata davvero una sorpresa. Per fortuna, non è la prima che ho avuto da quando faccio questo mestiere».

Del libro della Postorino che cosa l’ha convinta ad accettare la doppia scommessa di girare in tedesco, lingua che non parla, e – per la prima volta – in costume?
«La paura. Quando Cristina Mainardi, produttore del film con Lionello Cerri, mi ha fatto leggere il libro ho subito capito che si trattava di una sfida eccitante ma portatrice anche di tante insidie».

Quali?
«La più importante è quella che mi ha sempre tenuto lontano dai lavori in costume: fare qualcosa di poco credibile e finto, distante più di ottant’anni dalla nostra realtà. Però il personaggio femminile di Rosa mi ha affascinato così tanto, per la sua complessità di giovane donna piena di sfaccettature e colpi di scena, che mi sono buttato».
Come ha interagito con il cast?
«In inglese. E se non riuscivamo a capirci bene, c’era sempre qualcuno pronto a tradurre. Per fortuna, se una scena viene bene è subito chiaro a tutti. L’ho girato con attrici tedesche e nella loro lingua per fare in modo che tutto fosse più autentico. La verità e la concentrazione di tutte loro hanno dato al film un valore aggiunto straordinario. Una cosa simile l’avevo già fatta nel 2002 con Brucio nel vento, tratto da un romanzo dell’ungherese Agota Kristof, Ieri. In quel caso la lingua era il ceco perché il protagonista che avevo scelto, Ivan Franek, parlava quella lingua lì».

La lezione più importante che porta a casa dopo un’esperienza come questa qual è?
«Ce n’è più di una. Ho capito che avevo ragione a temere i film ambientati in altre epoche perché di sicuro ogni cosa è più complicata, dal budget alla lavorazione ordinaria. Ma è anche vero che più o meno tutto si può fare, o almeno ci si può provare. Certe difficoltà vanno affrontate. Per me è stato un bel cambiamento perché di solito di fronte a qualcosa di molto complesso tendo a dire: vabbè, troviamo qualcosa di meno complicato. Per esempio, non credo che sarebbe mai partita da me l’idea di fare un film dal libro di Rosella Postorino. Però me l’hanno offerto e per fortuna non mi sono tirato indietro. Li ringrazio ancora».

Di lei si dice che da sempre – il primo film a episodi, “Provvisorio quasi d’amore”, è del 1988 – sia molto rigoroso, originale, appassionato. Da allora a oggi cosa c’è voluto per non perdersi?
«Coraggio e incoscienza. Mi piace affrontare qualcosa mai fatto prima. Le avventure mi entusiasmano e mi piace affrontarle con gente che la pensa come me. Questo mestiere so farlo solo così».

Il bilancio com’è: positivo, così e così o altro?
«È chiaro che uno vorrebbe sempre il massimo dei riscontri, ma la verità è che le variabili sono tante e non sempre le cose vanno come uno desidera. Alcuni miei film sono andati male, altri molto bene. Non mi lamento, Anzi, questi nuovi risultati mi danno speranza per il futuro: non deve esserci per forza il solito attore famoso per far funzionare un progetto».

Postorino che cosa le ha detto?
«È rimasta molto contenta perché ha sentito che il cuore e l’anima del romanzo ci sono. Con lei sono rimasto in contatto durante tutta la lavorazione, l’ho utilizzata anche come piccola enciclopedia... È bravissima, sa tutto».

È vero che lei stesso ha definito il suo cinema “bislacco”?
«Diciamo che l’ho detto soltanto di alcuni miei film. Le commedie che giro io, infatti, non sono quelle classiche all’italiana. Sono un po’ surreali, con personaggi fantasiosi e soprattutto con tante storie al femminile che mi aiutano a raccontare meglio quello che ho in testa. Lavoro molto bene con le donne, con loro scatta subito una fiducia reciproca. Forse dipenderà da come sono fatto e dalle tante amiche che ho».
Finora cosa le è venuto meglio?
«Non lo so. Ogni film è un viaggio a sé in cui ho scoperto cose nuove e ho conosciuto persone e luoghi diversi. Non so rispondere».
Il primo ringraziamento a chi va?
«A mio padre. Nonostante la mia scelta di vita non fosse quella che lui sperava, cioè qualcosa di più vicino al mondo dell’economia, alla fine mi spronò a inseguire i miei sogni: “Studia e datti da fare”, mi disse. Così per due anni mi fece frequentare i corsi della Tisch School of the Arts di New York».

È vero che al suo funerale, lei che si trova più a suo agio con le immagini, trovò le parole giuste per ricordarlo in pubblico?
«Sì. La sua morte azionò qualcosa dentro di me. Volevo raccontare il nostro rapporto, così scrissi di getto una pagina e poi mi misi a leggere».

A proposito, è vero che proprio suo padre le regalò “Il profeta” di Gibran con alcune pagine molto significative per lei?
«In un passaggio si diceva che il padre è l’arco e i figli sono le frecce. Ricambiai sicuramente con qualcosa di Raymond Carver che negli Anni 80 mi piaceva molto».

Il 9 maggio 1999 suo fratello Giovanni vinse la prima regata intorno al mondo in solitario: è vero che lei leggendo la notizia, da solo in treno, scoppiò a piangere senza freni?
«Sì, ero felice per lui e siccome stavo passando un periodo complicato, ebbi una reazione incontrollata».

Che cosa stava vivendo?
«Una separazione, quei momenti difficili che hanno un po’ tutti».

In assoluto c’è un errore che avrebbe volentieri evitato di fare?
«Intende la cazzata della vita? Dio mio, adesso non mi viene in mente. Forse sono troppo stanco. Sono nel frullatore da giorni. Di sicuro posso dire che ho sempre cercato di non far spegnere la famosa fiammella dentro di me. Dopo il successo di Pane e tulipani avrei potuto fare un’altra commedia, ma feci Brucio nel vento, un film molto più drammatico di tutti gli altri girati in precedenza. Non potevo fare diversamente. Sono fatto così».

E allora, la prossima sfida quale sarà?
«Spero proprio di riuscire a fare un’altra commedia. Sto iniziando a lavorarci. Non voglio fossilizzarmi sulle storie drammatiche».

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Ho sentito dire che vorrebbe fare un musical: conferma?
«Sì, prima o poi vorrei provarci. Ma non sarà mai un musical vero e proprio, diciamo che dovrebbe essere un film con qualche canzone ma senza prendersi troppo sul serio. Mi piacerebbe utilizzare la musica in modo ironico».
Anche lei va a vela come suo fratello?
«Sì, ma su barche normali. Con lui vado quando riusciamo, ma su quelle da regata solo una volta abbiamo fatto un giretto intorno alla Spezia».
Ha conti da saldare con qualcuno?
«Qualcosina sì, ma niente di più. Direi poca roba. Viaggio leggero».