Il Messaggero, 12 aprile 2025
Intervista a Valeria Golino
«Ci vediamo al mare?». Un paio di anni fa Valeria Golino mi ha proposto di raggiungerla dove la sua identità, mezza greca e mezza napoletana, si fonde con il suo elemento preferito: l’acqua. E lì, ha iniziato a nuotare nei ricordi. A volte le sembravano inutili, altre ingombranti, altre ancora dimenticabili. Con la memoria intrattiene «un rapporto di pura cortesia» e il filo da seguire per non smarrirsi nel labirinto del tempo si chiama identità: «Proprio perché non ho certezze ho sempre provato imbarazzo a definirmi: non saprei dire chi sono, ma faticherei anche a spiegare chi non sono». Il passato le sembra una terra straniera e l’intervista una gabella medievale in cui mettendo le mani nella borsa è costretta a ripagare l’interlocutore con la moneta aneddotica, con le «antichità terribili» di cui ogni biografia è piena. Preferirebbe raccontare le sue storie. Storie che non hanno mai una sola lettura perché la vita è più complessa, bugiarda e sorprendente di ogni sintesi forzata. Valeria Golino lo sa, ma quando pensa di sapere una cosa già ne dubita. È questo che la rende così interessante, ma è probabile che lei non sarebbe d’accordo. O forse sì. È sicura di pochissime cose e si muove con gesti da gatta intorno alle antenne della contraddizione. Teme che ogni frase appaia «sentenziosa» e gioca: «Mi hai preso per un vecchio saggio che può dare lezioni di vita?». Annuisco vigliaccamente. Suonano tre amici alla porta. Lei annusa l’occasione di fuggire. Apre, torna, si risiede. Bisogna sbrigarsi, non perdere l’attimo: domanda interlocutoria sul suo mestiere. È persuasa di fare dice, un mestiere meraviglioso: «Lavoro all’impresa più romantica, dare forma a ciò che non esiste». Del suo mondo ha esplorato ogni angolo: ha recitato, è diventata regista, è l’unica attrice italiana ad aver conquistato per due volte la Coppa Volpi. Tra poche settimane, con Fuori, l’ultima opera di Mario Martone, unico film italiano in concorso, sarà a Cannes. Immaginare che ci arrivi già accarezzata da un premio figlio delle 14 candidature de L’arte della gioia al David di Donatello, non è lunare.
Vuole dirmi cos’è un premio?
«Vuoi darmi davvero del lei? Mi alzo e me ne vado». (Sorride)
Vuoi dirmi cos’è un premio?
«Un riconoscimento che riesci a goderti solo con gli strumenti della maturità».
La prima volta che ti premiarono per “Storia d’amore” di Citto Maselli non fosti felice?
«Tutto, a partire dal contesto, mi suggeriva di esserlo. Sapevo di provare una sorta di felicità e la avvertivo, ma non riuscivo a essere contenta come avrei voluto. A neanche vent’anni, mi avevano assegnato la Coppa Volpi. Non sapevo nemmeno come gestirla, quella situazione. Il vestito me lo prestò mia madre, il discorso non fu un granché».
La seconda volta fu diverso?
«Seppi gioire meglio e feci mia la lezione di Benicio Del Toro. Quando vinse l’Oscar gli domandai se fosse felice e lui, di getto: “Sono felice per tutte le persone che mi amano”».
È una bella risposta.
«È una risposta così perfetta che ho avuto spesso la tentazione di rubargliela».
Hai mai rubato qualcosa nella vita?
«Quando si è bambini i soldi sono bellissimi, tangibili, frusciano tra le dita. Da ragazzina le mani nella borsa della nonna le mettevo e qualcosa trafugavo. Poi, un po’ per senso di colpa, un po’ per paura che mi scoprissero, quel denaro lo seppellivo sotto terra».
Era un’ebrezza?
«Una piccola ebrezza che dura fino al momento in cui non ti beccano. A me è capitato e la mia carriera da ladra è finita a 12 anni e mezzo. Ero in America, a Chicago, una città bella, ma dal gelo indimenticabile, in un grande magazzino con mia madre. Gli scaffali erano pieni di oggetti inutili che però non avevo mai visto né in Italia né in Grecia. Riempii le tasche del mio cappottino e mi avviai furtiva all’uscita. Non avevo idea che esistessero già le barriere antitaccheggio, le superai e iniziò a suonare tutto. Si senti un lungo bip, bip, bip e con la coda dell’occhio vidi due orchi. Due enormi vigilantes. Mia madre, disperata, piangeva per la vergogna. Io avrei voluto morire. Ci portarono in ufficio, mi spiegarono la gravità del gesto, mi presero a male parole e minacciarono di farci espellere dal Paese. Da quel giorno non ho più rubato neanche una caramella. Non perché non volessi, intendiamoci, ma perché avevo imparato che l’età dell’innocenza era finita ed esistevano le sanzioni: delitto e castigo».
Che ci facevi a Chicago?
«Ci andai per un’operazione. Avevo una forma di scoliosi fin da bambina che invece di migliorare, peggiorava. Ho conosciuto i medici per la prima volta a 9 anni e per tanto tempo sono rimasta distesa, immobile, in un limbo. A Chicago, dopo l’intervento, passai 5 mesi a letto».
Proust sostiene che l’adolescenza è il solo tempo in cui si impari qualcosa.
«Vorrei dargli ragione, ma la verità è che io, circondata da busti e medici, in un ospedale in cui c’erano bambini affetti da gravissimi handicap che stavano molto peggio di me, un pezzo di adolescenza l’ho saltata a piè pari. Quel periodo non fu inutile né completamente cupo. Il corpo era fermo, ma i sensi vivissimi. Durante la riabilitazione conobbi molte persone, frequentai una casa editrice, tornai alla vita».
E l’infanzia?
«È il luogo dei desideri astratti – il mio, più declamato che reale era quello di fare la cardiologa – e delle scoperte, anche dolorose. La prima, sconvolgente, fu capire che la felicità non è eterna. I miei genitori si separarono presto, io e mio fratello, che oggi fa il musicista, facevamo la spola tra Atene e l’Italia. Forse è per quello che non mi sento mai a casa e che conduco una vita nomade. Il prolungamento della mia infanzia».
Quella prima scoperta ebbe il suo peso?
«Mi restituì la sensazione che ci fosse sempre la possibilità che nulla restasse com’era e che tutto potesse cambiare da un momento all’altro».
Quell’instabilità ti turbava?
«Ai bambini, sembra un paradosso, la mancanza di argini non piace. Eravamo nel disordine, circondati dalle lunghe assenze alternate di nostro padre o di nostra madre, senza un vero centro».
Che ricordi hai di tuo padre?
«Molto belli e molto dolci. Era ironico, aveva un suo modo di parlare, colto e leggero, spiritoso e profondo al tempo stesso. Amava la compagnia, ma conosceva il lusso della solitudine: “Meglio solo in un fosso che in compagnia di un conoscente”, diceva. E poi rideva».
Ti leggeva le fiabe?
«I fratelli Grimm e Calvino, proprio come in ospedale, a Chicago, mi leggeva Nabokov. Una volta mi regalò un vestito rosso per festeggiare i miei 10 anni e io feci la pazza. L’idea di compiere 10 anni mi preoccupava e mi faceva disperare. Stavo crescendo e io di crescere non volevo saperne».
Cosa è rimasto della ragazza che era?
«Da giovani è tutto più opaco, incerto e indefinito, ma se mi guardo indietro, anche nei mutamenti, mi riconosco per quella che ero».
Sempre?
«Adesso e per i prossimi 5 minuti. Se me lo chiedi domani potrei aver cambiato idea».
Come mai?
«Non siamo, sempre, una cosa sola. Cambiamo idea, suggestioni, impressioni su tutto, figuriamoci su di noi».
Ti sei mai chiesta che mestiere fai davvero?
«Un mestiere in cui il punto di vista è più importante della messa in scena. Gli stessi contenuti, le stesse storie e le stesse infanzie raccontati in modo diverso hanno un valore differente. A me pare sia la prospettiva con cui racconti le cose a renderle preziose»
Al principio della carriera non tutti sono stati teneri con te.
«Quando sei giovane sei circondata dallo scetticismo. Da adulti va benissimo ogni cosa che fai. Ma l’applauso, anche se fa piacere, è scivoloso e anticipa un’altra sensazione ambigua: la soddisfazione».
A 16 anni precipiti su un set.
«Rifiorita dopo gli ospedali, come una farfalla appena uscita dal bozzolo, forse anche per vanità, avevo iniziato a fare la modella. Ero venuta per Pasqua a Roma e stavo tornando in Grecia. Aspettavo un taxi con le valigie in strada e mia zia mi chiamò dalla finestra: «Valeria, torna qui, devi fare un provino». Mi aveva ospitato e conosceva Lina Wertmüller. Lina stava preparando il suo film e non trovava l’attrice. La vita mi è cambiata così, per una telefonata di cinque minuti tra due amiche: “Perché non vedi mia nipote? È bellissima, sai?”. Quelle cose che fanno le zie».
Per “Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada” ti presero. Più che una festa somigliò all’accademia militare.
«Lina sul set era feroce e diceva cose terribili, ma penso mi abbia voluto molto bene. Non ero neanche maggiorenne e lei mi insegnò a fare i primi passi. Mi trovò un’agente, mi aiutò a orientarmi e mettendomi in bikini al suono di “ah-ah, analcolica” mi fece persino esordire in una pubblicità della Peroni. Affettuosissima e generosa su quel primo set e anche dopo: Lina per me era famiglia».
Ti annoi mai?
«Mai, soprattutto se ozio. Se incontro qualcuno che non mi piace al limite mi infastidisco, ma ho imparato a dissimulare benissimo e comunque sono curiosa. Se sono seduta a tavola con un antipatico, più che a trovare una scusa per scappare penso a conoscerlo».
Gli anni ti hanno resa più indulgente o più severa?
«Penso di essere stata sempre stata molto indulgente. Poi è vero che la tolleranza, l’adattamento all’altro e l’empatia sono sicuramente belle qualità, ma costano. Non posso farne a meno, ma a volte ho il sospetto che per raggiungerle devo sottostare a ciò che non mi piace, accettare il compromesso, accontentarmi. Quando succede mi trasformo e mi irrito».
Capita anche a te?
«Ma certo. Il rapporto col mio modo di essere e con gli altri non è sempre quieto, lineare o pacificato. È contraddittorio. La mitezza è un modo gentile di stare al mondo e a volte è una necessità. Poi sa cosa c’è? Che le parole di un’intervista fanno sembrare la questione più seria e grave di quella che è e tra l’altro non è affatto detto che un mite sia necessariamente buono».
Capita anche a te?
«A volte la porta va aperta e il quieto vivere deve lasciare lo spazio all’onestà. Vanno dette e fatte delle cose. Sul lavoro come in amore. Il rispetto è importante, ma il confronto lo è di più».
Hai mai litigato su un set?
«Ho discusso, anche animatamente, con tutti i registi che ho amato. Ho invaso lo spazio dell’altro, mi sono fatta invadere. Ho giocato una partita in cui le ho date e le ho prese sia quando recitato un film, sia quando lo dirigevo».
Quali erano le ragioni?
«Puoi litigare perché non riesci a fare qualcosa che vorresti, perché ti senti frustrato, o perché vorresti che le cose andassero in modo diverso, ma preferisco la schiettezza, magari brutale, al non detto. I dissidi inespressi mi turbano molto di più di quelli che trovano una strada verso la chiarezza. Discutere non è bello, ma almeno è catartico».
Qualche anno fa ti hanno assegnato il premio “Inquieta dell’anno”.
«Ho sempre avuto un’irrequietezza di fondo che posso travestire in qualsiasi modo, ma che alla fine, che indossi un abito oppure un altro, resta. Si fa quel che si può, ma soprattutto si è quel che si è».
Con la disciplina?
«Con la disciplina ancora combatto: è un mio grande difetto. Sul set di Rain Man, Barry Levinson, il regista, non diceva neanche buongiorno. Solo “discipline, discipline”».
Aveva ragione?
«Piena. Avevo 21 anni, Mi facevo qualche canna di troppo, un modo ingenuo di assorbire quell’enorme salto professionale. E ancora oggi che ho smesso di fumare, che non sono più una ragazza, che faccio la regista, scrivo i miei film e ho – o almeno mi sembra – molte più responsabilità di ieri, penso che la mancanza di disciplina sia un ostacolo alla mia creatività e che in fondo io non sia migliorata poi così tanto. Vivo di intuizioni, di lampi e di guizzi estemporanei in un disordine creativo che non somiglia alla disciplina».
Non ci si può ribellare alla propria natura?
«L’ho seguita e assecondata. E non lo dico con il compiacimento di chi pensa: “che volete? Sono fatta così”, ma con contenuta stizza».
Che natura ha?
«Una natura che mi ha fornito di alcuni strumenti e me ne ha tolti altri. Provo a sollevarmi, ma a volte certi difetti mi fanno starnazzare. Sbatto le alucce, credo di volare e invece resto inchiodata a terra».
C’è chi sarebbe corso dall’analista.
«Non ci sono mai andata e per tanto tempo mi sono detta che il rifiuto aveva a che fare con il desiderio di tenere inconscio, ricordi, paure e nevrosi in un limbo protetto».
Come mai?
«Perché tutte queste cose hanno nutrito il mio lavoro e pensavo che metterci mano e farsi aiutare, capirle o ripararle, significasse avere più consapevolezze, ma cancellare ciò che di fulminante, doloroso e misterioso serve per inventare».
Lo pensa ancora?
«L’ho teorizzato per tanto tempo. Oggi penso che andare in analisi potrebbe rivelarsi interessante, ma non è tra le mie priorità e quindi è facile che non accada mai».
Ha la sensazione di spendere bene il suo tempo?
«Ho la sensazione di arrancare, il sospetto di essere sempre in ritardo, la certezza che a tutti noi, per fare tutto ciò che abbiamo in mente di fare, servirebbero tre vite».
Tu hai gli stessi amici e le stesse amiche di trent’anni fa?
«Alcuni sono rimasti, altri li ho persi per strada. Quando ti accorgi che nei rapporti c’è qualche squilibrio e qualche zona d’ombra puoi avere il desiderio di confessarti che non hai più voglia di avere a che fare con qualcuno. Fa male, perché prima o poi si finisce inevitabilmente per deludere ed essere delusi. Le persone cambiano. Diventano altro. Anch’io sembro tante cose che non sono. So che pare una cosa amara da dire».
È la verità?
«Verità è una parola che non andrebbe mai pronunciata. È pomposa, fa sentire la sua eco e l’eco è spesso ridicola. È la verità di adesso, magari tra domani la verità è un’altra».
Sei mai stata mai delusa da te stessa?
«So che in alcune occasioni ho compiuto degli errori per non aver veramente voluto guardare a come stavano le cose o per essermi ritratta al momento di prendere una decisione importante. È capitato, capiterà ancora».
Tu sostieni che l’umorismo sia nemico dell’erotismo.
«L’umorismo mi piace, ma non è detto abbia a che fare con l’amore. Se il mio compagno è spiritoso, benissimo. Ma sono attratta da qualcosa di più misterioso e pericoloso».
C’è qualcosa che ti fa paura?
«Ho spesso paura, cerco di superarla».
È un talento che ha a che fare con il coraggio?
«Se coraggio significa superare una propria paura sì, sono stata coraggiosa e mi è successo».
Cosa non è successo ancora?
«Non sono diventata ciò che non potevo diventare. La praticità e i calcoli non sono mai stati il mio forte. Ho navigato con incoscienza, senza una rotta apparente, in libertà. Se ci penso bene sono stata fortunata anche solo a pensare di potermelo permettere».