ilfattoquotidiano.it, 12 aprile 2025
Intervista a Luciano Ligabue
Buon compleanno Elvis compie trent’anni. Un album irrinunciabile, che regalò a Luciano Ligabue un successo non facile da gestire. A partire dal 18 aprile usciranno una serie di cofanetti, inediti e primizie, compreso il disco riletto in chiave splendidamente acustica. Con l’occasione, Liga si racconta. E svela che a fine mese celebrerà gli ottant’anni della Resistenza con un evento a Roma insieme a chi vi scrive.
Che ricordo hai di Buon compleanno Elvis?
Ho bisogno di romanticizzare le cose, e continuo a pensare che in quel disco ci sia finita della luce che non veniva solo da noi. La luce della scuola di Budrio dove impostammo il lavoro, dell’Esagono di Rubiera dove incidemmo l’album, della campagna circostante. Era tutto luce. E noi, che avevamo appena iniziato a lavorare insieme, eravamo evidentemente predisposti a quella luce. Le ombre rimasero fuori.
Eppure eri reduce da Sopravvissuti e sopravviventi, disco e tour non fortunati commercialmente.
Mi giocavo tutto, ma durante la lavorazione non avvertii quel peso. Perfino le rane ci facevano compagnia, e per avere un po’ di silenzio il tecnico doveva uscire di continuo e sparare in aria con la scacciacani. Funzionò tutto, anche la scelta del singolo. Io pensavo a Vivo morto o X, il primo discografico puntò su Seduto in riva al fosso. Poi, per fortuna, scelsero Certe notti.
In apparenza un azzardo.
È una ballata e poteva sembrare troppo “lenta” come singolo. La scrissi in un pomeriggio. Celebrai le mie notti solitarie con la mia vecchia Opel Kadett sgangherata, e la cosa paradossale è che dopo quel brano lì non ho più potuto vivere liberamente quelle notti lì.
Anche in Seduto in riva al fosso espliciti il tuo eterno desiderio di stare in disparte.
Ho molto bisogno dei miei spazi, lo sa bene anche mia moglie. Devo sapere di poter stare anche da solo, sono così da sempre. È una cosa che va di pari passo con la timidezza, ma è proprio la timidezza che fa di me anzitutto un osservatore. E questo mi aiuta a scrivere canzoni.
Volevi smettere.
Il successo di Buon compleanno Elvis mi cambiò la vita e ne soffrii. Non avevo più privacy ed ero destabilizzato. Così pensai di mollare la musica. Ne uscii quattro anni dopo con Miss mondo, che andava volutamente nella direzione opposta a quella che molti si aspettavano.
Quali sono le canzoni più difficili da scrivere?
Quelle d’amore, perché le scrivono tutti. Il rischio di essere banale e retorico è altissimo. Ho superato fino in fondo la vergogna di scriverle proprio con Viva, una delle tracce ancora oggi più amate di quel disco.
Jovanotti sostiene che hai un grande senso pratico e picchi nella capacità di gestire mestiere e ispirazione.
La parola “mestiere” non la userei mai per quello che faccio. Ho fatto il ragioniere, ho fatto l’operaio, ho lavorato in campagna, ho fatto il promoter: so cosa vuole dire “mestiere”. Andare sul palco e scrivere canzoni non posso e non voglio considerarli mestieri, ma capisco cosa intende Lorenzo. È chiaro che, nel corso degli anni, ho dovuto sviluppare subito un senso pratico, e in questo mi ha aiutato il mio essere reggiano. Ho avuto la fortuna di incontrare subito un manager come Angelo Carrara, ma tre anni dopo ho avvertito il bisogno di abbandonarlo, altrimenti – pace all’anima sua – mi avrebbe rovinato la vita. E a quel punto ho dovuto imparare a cavarmela in un mondo difficile, di cui non sapevo nulla. La mia carriera è sempre stata un po’ “Correggio against Milano discografica”. Non facile come agone.
Sei molto pragmatico.
Sì, e questo cozza con l’idea dell’artista distratto. Sono l’opposto e va bene così. In un mondo ideale, avrei fatto parlare solo le mie canzoni e i miei concerti. Zero promozione, zero interviste. Ma non posso farlo. Lo capii già durante il mio primo tour promozionale nell’estate del 1990. Andavo nelle radio sperando di parlare del mio album d’esordio, invece mi chiedevano solo di Schillaci, la crisi di Vialli e il gioco di Vicini. C’erano i mondiali, e del mio disco non fregava nulla a nessuno.
L’ispirazione.
Spero di averne avuta tanta e penso di averne ancora. Ci sono ancora molte canzoni da scrivere, ma è sempre più difficile entrare nell’ambito prettamente politico. È cambiata tantissimo l’informazione e la sua veicolazione, e i brani ne soffrono. Dylan ha detto anni fa che non è più possibile scrivere canzoni politiche sui temi di oggi. Forse esagera, ma il problema c’è. Ho speso due anni a scrivere un disco (Made in Italy, nda) su un operaio di 52 anni che veniva licenziato e per garantire un futuro ai figli doveva andare a fare il cameriere a Francoforte, dopo aver tentato il suicidio. Ci ho fatto anche un film: è stato l’album che è arrivato meno tra i miei, e con la realtà devi fare i conti.
Parlare di politica è difficile, ma domenica 27 aprile chiuderai la Festa della Resistenza di Roma con un incontro in Piazza dei Sanniti in cui converserai con me. È rarissimo che tu faccia queste cose.
Stavolta ho accettato per un motivo quasi banale: è un momento in cui è importante rinfocolare la memoria, e quindi la Resistenza che compie 80 anni. Io nella Resistenza ci sono inciampato. Primi giorni di Ragioneria, 1974, appello del professore di italiano. “Ma tu sei nipote di Marcello?”. “Sì”. E lui, rivolto alla classe: “Suo nonno è stato una figura di rilievo nella Resistenza”. Non sapevo nulla, la mia famiglia non mi aveva detto niente.
Anche di questo parlerai a Roma.
Vorrei portare l’insegnamento di mio nonno: ha fatto quello che ha fatto perché non voleva aderire al fascismo, ha subito tutto quello che ciò comportava e poi è andato semplicemente avanti, senza vendette né ritorsioni. Per me è ancora una lezione di vita esemplare. E pensa che con mio nonno di tutto questo non ho potuto parlare, perché è morto l’anno prima che scoprissi il suo passato partigiano. E sai quando se n’è andato? Il 25 aprile 1973.
Sono tempi pesanti.
Non sono cattolico praticante, ma faccio il tifo per il Papa, una delle poche persone che si batte per una parola che quasi non si usa più: “pace”. L’altro giorno ha detto: “Disarmiamo le parole”. Sarebbe la prima cosa da fare, ma il mondo va nella direzione opposta.
Prima la piazza di Michele Serra, poi quella dei 5 Stelle.
Non so cosa dirti. Siamo in una fase troppo frammentata, ed io non riesco ad avere chiarezza neanche con me stesso. Da sempre odio qualsiasi forma di violenza e mi manca tantissimo una figura come Gino Strada, col suo pensiero utopistico di rendere fuorilegge la guerra. Dovremmo proprio ficcare in mezzo alla testa delle persone la parola “pace”, cazzo. Però è anche vero che, senza la “violenza” della Resistenza, forse saremmo ancora nazisti. Non lo so. È tutto complicato, e faccio sempre più fatica a sentirmi rappresentato. Mi ritrovo ancora nelle parole che scrissi 26 anni fa per Il mio nome è mai più: “Io non lo so chi c’ha ragione e chi no/ Se è una questione di etnia, di economia/ Oppure solo pazzia: difficile saperlo/ Quello che so è che non è fantasia/ E che nessuno c’ha ragione e così sia”. All’epoca era il Kosovo, oggi è l’Ucraina ed è la Palestina.
Poche settimane fa sei stato premiato a Venezia. Ti fa effetto essere percepito come “venerato maestro”, citando Arbasino e Berselli?
In effetti era un po’ un Leone alla Carriera, e quando sei lì a ritirarlo ti dici: “Ehi, calma, sono ancora in attività!”. Mi ha fatto piacere, i premi accarezzano ancora il mio ego, ma io ho ancora un’anima molto ragazzina. Poi la carriera ti costringe a crescere e spero a maturare, però non riesco proprio a far coincidere quello che sento dentro di me con la mia immagine esterna e ancor più con l’età anagrafica. Non ho mica 65 anni dentro di me! Ho un’anima molto ragazzina, anche se purtroppo non più incosciente e spavalda come vorrei. Nel mio genere, diciamo il “pop rock”, la sfacciataggine serve per forza. E io ne ho molta, molta meno di prima. Pensa all’incipit della prima canzone del mio primo album.
Balliamo sul mondo.
“Siamo della stessa pasta, bionda, non la bevo sai/ Ce l’hai scritto che la vita non ti viene come vuoi”. Ci sono subito due cose molto chiare. La prima è che non avrei mai adeguato la grammatica a un mio bisogno musicale, altrimenti avrei scritto “la vita non ti viene come vorresti”. La seconda è che, se siamo della stessa pasta, vuol dire che anch’io ho problemi come te. E come reagisco? “Facciamo l’amore”? No: “Balliamo sul mondo”. Iperboli spinte e sfacciataggine pura.
Bennato ha pubblicato di recente una foto fantastica. Sulla scaletta di un aereo ci siete tu, Pavarotti, Bono, Bennato, Jovanotti, Pelù e Zucchero.
Me lo ricordo bene, era il 1997. Pavarotti aveva deciso di presenziare all’inaugurazione di un centro musicale a Mostar, creato grazie al Pavarotti International. Quel viaggio fu molto faticoso, cambiammo due elicotteri militari e seguimmo dei percorsi particolari per motivi di sicurezza. C’era molta tensione. Io ero di fianco a Bono e a sua moglie. A un certo punto, col suo candore, Bennato tirò fuori la sua dodici corde e si mise a cantare il repertorio classico del rock’n’roll. La sua guaglioneria napoletana sconfisse la paura. E ci mettemmo a cantare tutti con lui.
Bono lo conoscevi già.
Avevo già aperto alcune tappe italiane dello ZooTv Tour degli U2. Il più bel concerto della mia vita, insieme a Jeff Buckley a Correggio e a qualsiasi data del miglior Bruce. Una volta incrociai Bono dopo uno di quei concerti. Mi guardò un po’ storto e disse: “Grazie per avere scaldato il pubblico…anche troppo”.
Dimmi di Pavarotti.
Sono stato molto amico di Luciano, ha avuto ottime ripercussioni su di me. Umane e professionali. L’ho sentito cantare Certe notti a un passo da me ed è stata un’esperienza letteralmente disumana. A lui quella canzone piaceva tantissimo. E anche per quello mi ritrovai in Francia insieme a lui.
In Francia?
Venne invitato a un Telethon, e lui non appariva in Francia in tivù da più di dieci anni. Mi chiama e mi dice: “Vado là solo per fare Certe notti”. Io, imbarazzatissimo: “Ma in Francia non mi conosce nessuno!”. Lui: “Non me ne frega niente, andiamo!”. Vado con lui, felice ma con la sensazione di essere un usurpatore. Facciamo le prove, orchestra di venti elementi. Finisce la prima versione, Luciano mi chiede un parere. Io: “Mi sembrava buona”. Lui: “Faceva cagare!”. Penso: benissimo…L’abbiamo rifatta trenta volte. I tecnici mi odiavano: mi ritenevano il colpevole, visto che quella canzone a loro ignota era mia. Poi ho capito che il problema non era la resa musicale: erano le inquadrature. Infatti a un certo punto Pavarotti ha mandato affanculo il regista e ha fatto tutto lui. Passa un altro po’ di tempo, si accendono le luci e scopro che, seduto ad aspettare il suo turno di prove dopo essersi ciucciato più di un’ora di Certe notti, c’era Charles Aznavour. Assurdo.
Ti interroghi mai sul tuo ruolo?
Da almeno trent’anni. Nel mio piccolo spero che la mia arte contagi qualche coscienza, ma è tutto sempre più difficile, perché le canzoni escono in mezzo a milioni di altri stimoli. È tutto aggrovigliato e la musica non ha più l’incidenza che aveva prima. È dura ma, per quanto posso, cerco di tenere pulito lo strumento.