Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  aprile 12 Sabato calendario

Le ragioni di chi sostiene la politica dei dazi nonostante tutto. Ma Trump è un “salvatore” molto improbabile

Tra le tante storie di delocalizzazione, ce n’è una particolarmente emblematica che vale la pena riassumere. Aiuta a capire la rabbia di tanti statunitensi che dalla globalizzazione hanno avuto danni e non benefici e il motivo per cui difficilmente gli scossoni provocati in questi giorni dai dazi di Trump faranno vacillare il loro appoggio al presidente. Nel 2002, l’attuale governatore della Federal Reserve, Jerome Powell, lavorava per il grande e potente gruppo di private equity Carlyle. Fu proprio lui che decise di acquisire la proprietà di Rexnord, una florida azienda di meccanica di precisione i cui prodotti erano utilizzati in vari ambiti industriali, fondata oltre un secolo prima a Milwaukee, nel Wisconsin. Rexnord fu comprata per quasi 600 milioni di dollari.
Come spesso accade quando entrano in gioco i fondi di private equity, Rexnord divenne il corpo su cui effettuare innumerevoli operazioni di ingegneria finanziaria, per cercare di spremere quanto più denaro possibile. Nel consiglio di amministrazione di Rexnord, in rappresentanza di Carlyle, c’era Powell, un incarico che fruttò al futuro governatore della banca centrale un bel po’ di quattrini.

Alla fine si produce solo per pagare interessi sui debiti contratti per finanziare operazioni di riacquisto di azioni, che ne spingono in alto il valore per gli azionisti. Pertanto i costi produttivi devono scendere sempre di più, inclusi, naturalmente, quelli del personale. Si arriva così al 2016, quando ai dipendenti di Rexnord viene annunciato il trasferimento della produzione in Messico dove gli operai vengono pagati 3 dollari l’ora, consentendo all’azienda un risparmio di 15 milioni di dollari all’anno. Ma oltre il danno c’è pure una beffa: ai dipendenti statunitensi, viene offerta la possibilità di guadagnare ancora qualche soldo prima del licenziamento, insegnando il lavoro ai messicani che li devono sostituire a breve.
Viene facile domandarsi per quale ragione un ex dipendente americano di Rexnord non dovrebbe oggi gioire dell’imposizione di un dazio sulle importazioni dal Messico? Lo scopo dichiarato è proprio quello di evitare delocalizzazioni e spingere le aziende a riportare fabbriche e posti di lavoro all’interno dei confini statunitensi. Oppure perché dovrebbe dare troppo credito alle parole di Jerome Powell, che dalla Fed avverte del rischio di recessione causato dai dazi? O, ancora, perché dovrebbe preoccuparsi dei crolli di Wall Street, visto che il 93% delle azioni statunitensi è in mano al 10% della popolazione più ricca mentre il 50% più povero ne detiene appena l’1%? È anzi probabile che vedere gli odiati finanzieri di Manhattan cadere nel panico, offra loro un certo piacere.
“Wall Street è diventata più ricca che mai e può continuare a crescere e prosperare. Ma per i prossimi quattro anni, l’agenda di Trump si concentrerà sui risparmiatori. È il turno di Main Street“, ha detto, furbescamente, il segretario al Tesoro americano Scott Bessent. Certo, una crisi finanziaria seria avrebbe ricadute anche sull’economia rale e sui “risparmiatori”, ma Bessent cavalca un sentimento molto diffuso. Il fatto che la tempesta finanziaria abbia brevemente coinvolto anche i titoli di Stato ha messo in crisi questo teorema, già traballante. Tuttavia è dubbio che ciò basti a placare il profondo risentimento di una certa parte della popolazione.
Come nazione, gli Stati Uniti hanno enormemente beneficiato della globalizzazione e di un ordine internazionale che hanno contribuito in modo decisivo a plasmare. Un ordine considerato funzionale ai propri interessi, quindi da preservare. Tuttavia, se questo è vero a livello di nazione, lo è molto di meno tra alcune fasce della popolazione. C’è chi ha condiviso i benefici della globalizzazione ma anche chi ne ha sopportato danno. In questo secondo gruppo ricadono i lavoratori, soprattutto bianchi, con un livello di scolarizzazione relativamente basso, fondamentalmente tutti quelli senza una laurea. Per loro, la perdita del potere d’acquisto tra il 1979 e il 2017 è stata del 13%. Nello stesso periodo il reddito nazionale medio pro capite è salito dell’85%.

Il fatto che le imprese statunitensi siano andate a produrre laddove i lavoratori costano poco e i diritti sono pressoché inesistenti, ha permesso loro di incamerare giganteschi profitti. Ciò è servito anche per creare nuovi posti di lavoro in patria, meno nella produzione ma di più nella ricerca, marketing, servizi ausiliari etc. Alcune stime parlano di un sostanziale “pareggio” tra posti delocalizzati e quelli creati negli Usa. Tuttavia questo processo non è indolore anche perché raramente i nuovi posti creati sono destinati agli stessi lavoratori espulsi dal sistema produttivo. Nelle fabbriche, nelle catene di montaggio, ci sono oggi 5 milioni di posti in meno rispetto al 1980. È come se esistessero ormai due ascensori sociali. Uno che dai piani alti porta ancora più alto, un secondo che dai piani bassi va solo più in basso.
Al quasi annientamento di quella che in America una volta si chiamava “aristocrazia operaia” ha contribuito, come altrove, anche l’automazione che ha esasperato il processo di espulsione dei lavoratori meno qualificati da impieghi decentemente retribuiti. Quella che viene tristemente definita la fascia della disperazione, dove i suicidi e le morti per alcolismo o droghe sono in drammatica ascesa, include la Virginia Occidentale, l’Arkansas, il Kentucky e il Mississippi. Ci sono poi zone dei monti Appalachi, del Texas interno, del Maine, del Montana e del Michigan settentrionale. Sono quasi tutti stati o zone in cui Trump ha vinto con ampio margine. Dietro al presidente c’è anche un supporto molto, molto popolare.
Sono zone dove il tasso di istruzione è più basso della media nazionale e che, in molti casi, sono state colpite da una forte de-industrializzazione che ha portato ad un incremento della disoccupazione e ad un impoverimento dei salari. Grazie alle delocalizzazioni gli statunitensi, come quasi tutti gli occidentali, hanno potuto comprare molti prodotti a prezzi più bassi. Tuttavia, avrebbero forse preferito spendere di più per acquistarli, mantenendo però dei salari dignitosi.

È probabile che i lavoratori e i disoccupati che lo hanno votato, sbaglino ad identificare in Trump un salvatore. Al di là delle politiche commerciali, Trump propone ricette fiscali che avvantaggiano i ricchi, sostiene lo smantellamento di quel poco di sanità pubblica che c’è negli Usa e persino dell’istruzione. Ha dimostrato una certa allergia a tutto ciò che ha a che fare con il concetto di welfare, oltre che alle regole democratiche. Sono tutti elementi che vanno a sfavore delle classi sociali più deboli. Ma va pure constatato che sono pochi gli esponenti politici democratici che hanno offerto una credibile alternativa migliore, o almeno capace di apparire tale.
Già nella campagna del 2016, Trump è sembrato proporre una visione dell’economia in cui il mantenimento di posti di lavoro negli Stati Uniti prevale sulla massimizzazione dei profitti dei soci delle aziende quotate a Wall Street. Cosa che difficilmente si può dire della rivale di allora, Hillary Clinton, o che è parso comunque meno credibile nella sfidante del 2024, Kamala Harris. La maggioranza degli americani ha preferito credere di nuovo a Trump.
I dazi sono rischiosi, specie se affibbiati a mezzo mondo con criteri “esoterici” e non è detto che siano il sistema migliore per ridare ad una parte degli americani ciò che la globalizzazione ha sottratto loro. Sebbene nessuno lo sappia ora con certezza, anche alla luce dei continui “stop and go” della Casa Bianca, potrebbero davvero causare un rallentamento economico e un’impennata dell’inflazione tali da offuscarne eventuali benefici. Molto probabilmente produrranno un appannamento del potere internazionale statunitense nel lungo periodo ma, nel breve-medio termine, dei risultati li possono portare e già qualche segnale in tal senso si può osservare.
Ci sono già stati diversi annunci da parte di produttori statunitensi e stranieri in merito a progetti di rilocalizzazione e investimenti negli Stati Uniti. I vecchi lavori manifatturieri difficilmente torneranno, ma ne saranno creati di nuovi. Se l’obiettivo è aumentare le entrate esterne, ridurre il deficit di bilancio e riportare la produzione in patria, è possibile che le tariffe siano efficaci. Dal punto di vista di molti degli elettori di Trump a maggior ragione.