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 2025  aprile 12 Sabato calendario

"La regina Camilla conosce i miei programmi E ora a Londra ci vado io"

La Sicilia di Montalbano. Lo speciale su Pompei girato con un unico, gigantesco piano sequenza da 129’: «il più lungo della storia della tv» (con buona pace di Adolescence). E poi, come vedremo lunedì su Rai1 con Ulisse, la sfida di raccontare Londra attraverso la storia delle sue canzoni. Più passano le stagioni, più Alberto Angela alza l’asticella cambiando stile, mezzi, punti di vista. I titoli dei suoi programmi restano uguali – Ulisse, Le Meraviglie, Stanotte a... – ma non la loro anima. «La puntata di lunedì potrebbe anche essere il numero zero di un nuovo format», anticipa il conduttore.
La sete di conoscenza ha anche il volto dell’innovazione?
«Sono consapevole che la cultura in prima serata sia un azzardo di per sé e io, in più, ogni volta cambio formula, mi assumo dei rischi, testo nuove soluzioni: lo stesso lungo piano sequenza di Pompei non lo considero certo un punto di arrivo, anzi... Mi piace però stimolare la curiosità del pubblico e so di potermelo permettere perché ho una squadra – tutta interna alla Rai – fantastica. Quindi ci crediamo, conosciamo le nostre forze e andiamo avanti».
Fare programmi come questi vuol dire prendere sul serio il pubblico, riconoscendogli l’intelligenza che merita?
«Contrariamente a quanto si pensa, la platea della prima serata è per larga parte attenta e interessata. Ulisse non fa altro che risvegliare una sensibilità innata negli italiani: siamo un popolo cresciuto immerso nella bellezza».
Lunedì racconterà Londra attraverso la musica: si può fare cultura anche a suon di canzonette?
«Non esistono solo le grandi opere, come la Gioconda: anche la musica fa parte della nostra cultura. Gli antichi lo avevano già capito: avevano una musa per ogni disciplina. La musica fa parte del tessuto sociale di ogni Paese e si intreccia al contempo alla storia personale di ciascuno di noi. Le canzoni sono come un profumo: attraversano l’aria, la riempiono e poi svaniscono. A differenza di una statua, che resta lì per duemila anni, sono opere più effimere ma perdurano nei nostri cuori. La puntata vuole quindi essere un viaggio nel cuore delle persone: una carezza che rinsalda il legame tra musica e cultura».
Nella prima puntata, su Van Gogh, ha parlato di salute mentale: un tema che può, e deve, chiamare in causa anche la cultura?
«È fondamentale rompere quello che fino a qualche anno fa era un tabù e mostrare i danni che si causano nel momento in cui le persone non si sentono accolte e comprese. A Van Gogh mancava l’abbraccio: della sua famiglia (anaffettiva, come tutte quelle dell’epoca) e del mondo. In passato i depressi erano internati, oggi sarebbe tutto diverso. Van Gogh riversava la sofferenza nei colori dei suoi quadri; ogni pigmento era una sfumatura della sua anima. Per questo li amiamo e sono ancora così attuali».
La serie tv Adolescence ha mostrato il volto, violento e nascosto, dei social: il disagio giovanile resta una questione solo educativa, oppure siamo davanti anche a un problema di sanità pubblica?
«Non sono un esperto, però posso certamente dire che le comunità Sapiens hanno avuto successo perché si prendevano cura dell’ultimo, di quello che rimaneva indietro. Inoltre non dobbiamo dimenticare che l’uomo è un animale estremamente sociale: fin dalle prime manifestazioni di civiltà, troviamo le conchigliette gioiello, i colori, la musica. Tutte cose che i Neanderthal non facevano. Il problema dei social è che ti isolano: ti privano del contatto umano che invece è fondamentale anche a livello fisico. Un abbraccio secerne ossitocina».
Da padre è preoccupato?
«Ormai i miei figli vivono all’estero. In generale però faccio come mio padre che non diceva mai cosa bisognava fare ma cosa sarebbe stato meglio fare. Ai ragazzi non servono ordini, ma consigli. Quello che conta è esserci: anche quando loro sono lontani, anche quando vanno via di casa».
Seguiranno le sue orme o la dinastia tv Angela finirà con lei?
«Sono tutti e tre nel campo della ricerca e della scienza: vedremo se la storia si ripeterà ancora, incrociando le nostre strade. Proprio come loro, anch’io all’inizio non pensavo affatto alla tv, e lo stesso valeva per mio papà. Chi ha iniziato tutto è stato nonno che aveva una rubrica medica, alla radio, nel Dopoguerra».
Suo nonno è stato nominato Giusto tra le nazioni per aver aiutato, a rischio della vita, molti ebrei durante la Shoah. Tra poco è il 25 aprile: quanto è importante che sia una festa di tutti?
«C’è qualcosa che va al di là della politica: l’etica. Mio nonno non ha aiutato gli ebrei in virtù di una ideologia ma perché era giusto farlo. Anni fa, chiesi a un sopravvissuto di Hiroshima cosa fosse la pace e lui, fissandomi, rispose: “Farsi carico della sofferenza di chi hai davanti”. Ecco, questa è la strada per uscire fuori dalle guerre: comprendere il dolore altrui. Riconoscersi comunità (sapiens)».
Lei nasce ricercatore, suo padre giornalista. L’allievo supererà mai il maestro?
«Lo escludo. Mio padre è inarrivabile. Lo dico sia da figlio che da collega».

Eppure lei vanta tra i suoi fan la Regina Camilla.
«Così mi è parso di capire quando ho fatto da Cicerone a lei e a re Carlo, in visita a Roma. Non so però dirle dove e in quale circostanza abbia visto il mio programma: immagino in viaggio. La loro visita è stata tutto fuorché formale: c’è stato un fuori protocollo, perché hanno voluto proseguire. È diventato un viaggio nel cuore».
Dopo la morte della regina Elisabetta, in Inghilterra c’è chi vorrebbe eliminare la monarchia. È un pezzo di storia da tutelare?
«Mi limito a una risposta da osservatore: la monarchia inglese ha una storia talmente lunga che non si può cancellare con un clic e, a differenza di altre famiglie reali, ha saputo adattarsi sempre al proprio tempo. Per alcuni inglesi resta ancora un modello».
Il suo contratto con la Rai scade quest’anno: l’avete già rinnovato?
«Non ancora».
La corteggiano anche altri editori?
«No comment».