La Stampa, 12 aprile 2025
Scrittori amici miei
Elsa Morante
La mia amicizia con Elsa è cominciata nella primavera del 1963, sul trenino che da piazzale Flaminio traversa la campagna romana fino a Viterbo. Elsa andava a trovare sua madre, ricoverata in una casa di cura di Viterbo, e Wilcock, che avevo conosciuto qualche mese prima, aveva scelto proprio quel giorno per farci incontrare. A Viterbo Elsa ci lasciò alla stazione e ci ritrovammo un’ora dopo. L’incontro con la malata non era stato facile per Elsa: la madre, resa quasi demente da una grave forma di arteriosclerosi, non l’aveva riconosciuta, ma Elsa, guardandola, aveva avuto l’impressione di riconoscersi in quel volto incorniciato di ciocche di capelli bianchi e ne era rimasta impaurita. Per questo, mi disse più tardi, preferiva tingersi i capelli precocemente incanutiti. (Nella clinica romana dove Elsa ha trascorso gli ultimi tre anni della sua vita, quando aveva ormai cessato da un pezzo di tingersi i capelli e sembrava a volte che per un istante non mi riconoscesse, mi è tornato in mente quel nostro primo incontro). Da quel giorno cominciò una frequentazione molto intensa, quasi febbrile: ci vedevamo tutti i giorni, a volte dalla mattina alla sera. Elsa aveva quella illimitata disponibilità dei periodi in cui non stava scrivendo. La mattina si andava a colazione fuori Roma, oppure sull’Appia Antica alla trattoria detta “I trenini”; la sera ci si ritrovava in qualche ristorante del centro.
Nel circolo di Elsa si entrava immediatamente o si era altrettanto immediatamente respinti. Non c’erano cerimonie di iniziazione e i titoli per l’ingresso erano imprevedibili, se ne facevano parte tanto Sandro Penna e Cesare Garboli, Pier Paolo Pasolini, Natalia Ginzburg e Bice Brichetto, che ragazzi e ragazze affatto inqualificabili, purché privi di volgarità (la bellezza era apprezzata, ma non indispensabile). Non era – come mi disse una volta Calvino – che si potesse frequentare Elsa solo all’interno di un culto: piuttosto, se culto vi era, il suo oggetto non era Elsa, ma solo dèi che essa aveva riconosciuto come suoi pari o a lei superiori.
Italo Calvino
Il luogo comune di un Calvino razionalista e geometrico è, come ogni luogo comune, del tutto fuorviante. La sua era piuttosto una straordinaria forma di immaginazione analogica, anche se certamente velata da un residuo illuministico, dovuto, credo, alla giovanile militanza nel Partito comunista, cioè nel luogo più povero di immaginazione che esistesse allora in Italia. Ricordo non senza disagio il momento in cui – mentre dopo la morte di Italo cercavamo con Chichita di mettere ordine nelle sue carte –, aprendo un cassetto dimenticato vedemmo rovesciarsi sul pavimento una quantità sterminata di riviste, manifesti e insulsi scartafacci propagandistici del Pci degli anni del dopoguerra.
Le quasi maniacali pratiche combinatorie – lo rivedo perfettamente nella casa di Roccamare chino a far calcoli sui foglietti – cui ossessivamente Italo si dedicava mentre scriveva Il Castello dei destini incrociati e Le città invisibili dovevano certamente molto più alla cabala e alla magia che alla ragione.
E ricordo la comune emozione quando, nella grotta di Lascaux – che avevamo ottenuto di visitare in un piccolo gruppo di cinque amici –, ci trovammo improvvisamente nella grande sala davanti alla meravigliosa cavalcata dei tori, dei cavalli e dei cervi e, più in là, nel pozzo in cui ci si calava con difficoltà, davanti al bisonte sventrato e all’uomo morente col fallo eretto. Anche se la filosofia gli era estranea, la sua mente analogica riusciva a strappare le cose dal loro contesto per situarle in una sorta di immaginaria e teologica preistoria.
Giovanni Urbani
Raffaele (Duddù) La Capria ha raccontato la storia dell’amore di Giovanni per Kiki Brandolini d’Adda, che ho condiviso nelle tante serate passate insieme, nella casa di Kiki in piazza di Spagna, nei ristoranti che essi prediligevano ("Le Campane” o “Nino” in via Borgognona) o alle terme di Saturnia, allora una piccola piscina riservata agli amici del proprietario (fra i quali era Giovanni). Se penso al loro amore, la figura di Kiki resta per me enigmatica e, insieme, amabile per il suo modo discreto, e nondimeno a tratti pungente, di partecipare, quasi tenendosi nell’ombra, alle amicizie intellettuali di Giovanni, lei che veniva dall’ambiente più mondano ed esclusivo – ma certamente non intellettuale – che ci fosse allora in Italia.
E se ricordo Giovanni negli ultimi anni della sua vita, rivedo il velo di tristezza che sembrava annebbiare il suo volto da quando si era dimesso dall’Istituto centrale del Restauro e, ormai separato da Kiki, viveva come si sogna, da solo.
Giorgio Caproni
Quando cominciammo a incontrarci regolarmente, passeggiavamo in Trastevere, dove io allora abitavo, o nel suo quartiere (Monteverde Nuovo). Caproni parlava poco, con quella sua indefinibile, inconfondibile voce, insieme flebile e chiara, chioccia e arrochita, che ha fatto dire una volta a Pasolini che Caproni non parlava italiano, ma capronese. Ed è non senza malizia che Pasolini scelse proprio il terso, incontaminato Caproni per doppiare la voce di uno dei quattro tetri gerarchi di Salò; anche se il nome del poeta non figura in alcun modo nei génériques, era impossibile per chi l’aveva conosciuto non riconoscerla, sia pure con qualche dispetto. Caproni era stato fra i primi scrittori che Pasolini aveva incontrato quando, nel gennaio 1950, fuggendo con la madre da Casarsa, era approdato a Roma. Ricordo che, raccontandomi di quegli anni, Caproni mi disse come fosse rimasto stupito quando Pasolini, che doveva allora guadagnarsi da vivere insegnando in una scuola media a Ciampino, gli dichiarò perentoriamente: «Io sarò potente». Ed è a Pasolini che si deve la laconica, ma forse più nitida silhouette dell’amico: «Anima armoniosa, perché muta / e perché scura, tersa: / se c’è qualcuno come te, / la vita non è persa».