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 2025  aprile 12 Sabato calendario

Nella Striscia dopo la tregua è l’Apocalisse Donne incinte e neonati ora sono malnutriti

Sto costeggiando il mare con il resto della squadra, fra poco ci divideremo per raggiungere le due cliniche di assistenza sanitaria di base in cui lavoriamo ad Al-Mawasi e Al-Qarara (governatorato di Khan Younis). Ci aspettano i colleghi gazawi, ma soprattutto la folla di persone in attesa.
Fino a tre mesi fa questa strada era un caotico e affollatissimo bazar. Tagliava in due un immenso campo di sfollati. Tende fatte di pali di legno e teli di plastica accavallate le une alle altre. Una serie infinita di banchetti improvvisati dove si vendeva qualunque cosa. Bambini che sbucavano correndo ovunque, si procedeva a singhiozzo spesso bloccati dal traffico.
Oggi la strada che costeggia il mare è deserta. Poche persone ci camminano, poche macchine e stracariche di gente, alcuni carretti trainati da asini. Un gruppetto di persone ai lati della strada guarda sconsolato un’auto in panne, si controllano a vicenda e si accertano che tutto vada bene. Non tanto lontano echeggiano i colpi di artiglieria e il rumore di aeroplani con le loro bombe. Mi sembra una scena irreale.
Ormai da settimane, infatti, la guerra è tornata qui nella Striscia di Gaza a piena forza. Con i miei occhi ho visto molte guerre: in Afghanistan, in Iraq, in Sud Sudan, in Repubblica Centrafricana. Sempre violenza, sempre feriti, sempre bambini senza cibo, sempre persone sfollate, sempre case danneggiate. Ma qui è tutto… di più. Khan Younis si trova nel centro della Striscia: una città moderna che prima della guerra aveva la popolazione di Firenze (circa 360.000 abitanti). Attraversarla è un’esperienza surreale: solo strade sterrate dissestate, case collassate e, quelle in piedi, pericolosamente pericolanti e pendenti sulle vie. Crateri delle bombe, fori di proiettili e cannoni sui muri. Vedo alcune scritte, chiedo di che si tratta: le hanno lasciate i soldati, mi dicono, c’è scritto: “Torneremo a finire il lavoro”. Da quelle macerie sbucano persone che ancora ci vivono. La principale città è Gaza City grande come Palermo (600.000 abitanti). Ci sono andato appena è stato proclamato il cessate il fuoco. Ero con il nostro collaboratore Sami. Cumuli di macerie, strade impraticabili, a perdita d’occhio solo una grande distesa di case diroccate: un’immensa distruzione. Tanto che per strada ho chiesto a Sami quando saremmo arrivati, e la sua risposta è stata che già ci trovavamo in quello che rimaneva della città. Quasi senza rendermene conto mi sono sentito mentre dicevo: «è l’Apocalisse». In centro qualcosa regge ancora, ma davanti all’Al-Shifa Hospital, di nuovo un tuffo al cuore. Era il più grande (700 letti) e moderno ospedale. Ora è un edificio pericolante con la facciata crivellata dai colpi dei tank. File interminabili di persone alla distribuzione del pane.
Dopo la breve tregua tutto è tornato a settimane fa: frontiere chiuse ermeticamente all’ingresso di aiuti e di persone, scoppi di granate e sibili di missili. I sistemi di trasporto – auto e moto a tre ruote con la bombola del gas della cucina al posto del motore che formavano una variopinta processione – sono scomparsi per mancanza di carburante. L’acqua dolce è poca e preziosa, ci si accalca per averne un po’ attorno ai carretti trainati da asini e guidati da ragazzini che provano a guadagnare qualcosa. Al mercato sono da settimane scomparse uova, zucchero, caffè e carne. Si trovano solo ortaggi prodotti in loco come melanzane, zucchine, pomodori o rucola. Suleiman dice che le sigarette costano 10 euro… l’una! Ieri è arrivato nella nostra clinica di assistenza primaria ad Al-Qarara il medico, Moaz, felice perché aveva trovato le patate (20 euro al kg) e i limoni (15 euro al Kg). Le panetterie per la distribuzione gratuita del pane sono chiuse da giorni. Non ci sono né la farina né il gas per alimentare i forni. Bande di saccheggiatori si fronteggiano per le strade. Battaglie per il pane che hanno lasciato a terra morti e feriti. La gente è stanca e confusa. Mohammed, uno dei nostri dottori, mi dice che non riesce e non vuole più guardare le notizie, ora vuole solo occuparsi della moglie che aspetta un bambino. Qualcuno ha smontato e rimontato anche 10 volte la tenda di legni e teli di plastica per spostarsi a volte a Nord altre a Sud per cercare di sfuggire alle bombe e agli attacchi. Una tenda può costare anche 1000 dollari, un’auto per sfollare anche 500 dollari.
I droni ci accompagnano con il loro intenso ronzio. Bombe e cannoneggiamenti sono più o meno intensi, quindi più o meno vicini. È la colonna sonora di un film brutto, bruttissimo. Pochi giorni fa, Mustapha, un infermiere è arrivato tardi, pensavo non avesse trovato un passaggio. Era molto serio: «Torno dal funerale di parte della mia famiglia che ho perso sotto le ultime bombe». Riesco solo ad abbracciarlo.
Guardo spesso il terminale per accertarmi che non sia arrivato un ordine immediato di evacuazione che in pratica significa «a breve lì arriveranno le bombe». Qualche notte fa ci ha sfiorato l’evacuazione del lotto a fianco al nostro e stamane, dopo una notte insonne, la casa del vicino ha tutte le finestre rotte. Poche centinaia di metri più in là una casa è stata centrata, non si sa quante persone ci fossero dentro.
Giorni fa l’Ospedale Nasser è stato colpito da un drone e nel piazzale dell’ospedale una bomba ha incendiato la postazione dei giornalisti.
Sono qui da mesi, nella clinica che noi di Emergency abbiamo orgogliosamente costruito: vediamo oltre 100 persone al giorno. Adulti con dolori muscolari e ferite, anziani con malattie croniche che non trovano le medicine, bimbi con mal di pancia, febbre e tosse. Molte malattie sono tornate a essere frequenti per la guerra e le cattive condizioni igieniche come tubercolosi, scabbia e pidocchi. La malnutrizione acuta di bambini e donne in gravidanza non era mai stata registrata a Gaza fino a qualche mese fa. Una donna viene tutte le mattine, vuole controllare la pressione, ma poi comincia a piangere e dice che non ce la fa più. Mi aiuta guardare con speranza il gruppetto di donne incinte in attesa dei controlli nell’area in cui ci occupiamo di salute materno-infantile: provo un senso di fiducia nella vita.
Durante il Ramadan ormai finito era struggente vedere i tentativi di rispettare la tradizione di festa: dalle moschee i canti, i giri per fare visita ai parenti, i bimbi per le strade a giocare e sullo sfondo le raffiche dei tank e i cannoni delle navi. Non smetto di chiedermi il perché di tutto questo. Quanto valgono le vite perse o rovinate per sempre? Qui respiro odio, violenza e sofferenza e so che queste emozioni genereranno ancora più odio violenza e voglia di vendetta. Ancora una volta qualcuno ha deciso che per risolvere i problemi lo strumento da usare è la guerra. Qualcuno crede che sia una “medicina” amara, ma utile. Io non ho mai visto una guerra che risolvesse alcun problema. Questo strumento non funziona, e da medico dico: questa “medicina” il paziente lo uccide solamente.