Tuttolibri, 12 aprile 2025
Simenon in viaggio fotografa per spremere dalla realtà ciò che il talento rende trama
Nelle foto di Georges Simenon non c’è il suo talento, ma si vede, chiaro, il suo inconfondibile sguardo: la stessa curiosità, l’identica attenzione che esce dai romanzi, quella capacità precisa di unire i posti alle persone. Per questo gli scatti che scorrono alla Cineteca di Bologna in Otto viaggi di un romanziere riescono più a catturare che a inquadrare e vanno comunque visti.
È un modo per avvicinarsi a un autore amato, percepire la sfumatura di un affetto pescato da un archivio da 3000 negativi, numero che definisce ancora una volta Simenon: scriveva, viaggiava, collezionava immagini, tutto in quantità. Sempre per accumulo, in una ricerca continua. Ci sarebbero anche le donne, calcolate a migliaia pure quelle, secondo cifre tramandate nei decenni, ma tutto insieme in un’esistenza sola non ci sta e siccome foto e libri sono certificati, si deve essere arrotondato sul resto.
Le foto appartengono a un periodo preciso che va dai primi del Novecento alla fine di quegli anni Trenta e a Bologna sono suddivise in otto viaggi, non proprio avventure, piuttosto prova di un movimento perpetuo. Lo scrittore, allora ancora giornalista, inizia a documentare con assiduità quando acquista la Ginette, la scialuppa di uno yacht usata per spostarsi tra i canali e l’attività si intensifica quando passa all’Ostrogoth, vela da 10 metri. Il fluire dei dettagli segue l’acqua, scivola nel tempo, è infinito e costante e necessario ed è nella quantità che il lavoro acquisisce un senso, quasi un corpo. Sarebbe molto superficiale usarlo per incarnare le sue storie. Lo spiega benissimo e nei particolari il catalogo che si stacca dalla mostra e restituisce la logica dell’operazione.
Le foto di Simenon non hanno nulla di speciale, è inutile girarci intorno, sono provini di idee, ricerche personali, definiscono un periodo, certo, ma dal punto di vista più scontato. Anche il materiale che arriva dall’Africa è ancorato a una prospettiva colonialista, difficile da scartare all’epoca. L’unico speciale è lui, Simenon, in grado di dare densità all’atmosfera, il tramite che svariate generazioni hanno usato come ponte tra un’età e l’altra. Lui ha accompagnato le vacanze di moltitudini, ha dato al giallo una consuetudine, al gesto banale una luce, al sentimento inespresso una descrizione e per questo sfogliare gli otto viaggi è un’indagine, un gioco. Si cercano i lati sconosciuti dell’autore, si tenta inevitabilmente di ritrovare certe caratteristiche dei personaggi, girargli intorno e infatti il libro non finisce con la raccolta esposta alla Cineteca di Bologna, continua. Si dedica al Simenon, lo segue quando lui abbandona la macchina fotografica, torna sul successo di Maigret, sulla passione che l’Italia ha per lui. Non riesce a smettere, proprio come Simenon ed è ciò che rende l’intera operazione intrigante.
Le foto non sono quelle di un amatore e non hanno il guizzo del professionista. Galleggiano, potrebbero essere la documentazione di un’inchiesta, non per forza di un delitto, anche se alcuni scatti, quelli cittadini soprattutto, testimoniano un cambiamento che qualcosa uccide. Un’industrializzazione che modifica strade e abitudini e compromette paesaggi in anni duri. Durante una guerra, prima di un’altra e Simenon in mezzo a inseguire inquietudini, a trovare la maniera di metterle sulla carta. Forse le foto sono una transizione. Dal pensiero alla parola che ovviamente ha da subito uno stile, mentre le foto non ne trovano mai uno. Sono cataloghi in cui pescare esperienze, ricordi che regalano incipit, descrizioni, visioni, sono la valigia dell’autore, molto più pesante di quella dell’attore. E poi semplicemente smettono di avere un sostegno. L’arte del raccontare è troppo superiore a quella di fotografare che viene a noia.
Difficile attribuire tutti gli scatti a Simenon: di sicuro, nel mazzo, ci sono quelle della moglie, della segretaria e amante, degli accompagnatori. Restano lo stesso roba sua, indipendentemente dall’attribuzione, gli offrono strumenti che formano la sua carriera, l’invenzione del commissario Maigret.
Il catalogo avverte, «guai a sovrapporre libri e immagini». Vero, non esiste corrispondenza, le foto sono schizzi, bozzetti per l’immaginazione. Simenon procede al contrario: dalla realtà spreme quello che il suo vero talento traduce in trama. La foto se mai è il retro, la suggestione. Una minima parte viene pubblicata sulla rivista “Voilà”, altre si accatastano nelle scatole. Simenon potrebbe diventare il primo scrittore a procedere sul doppio binario e illustrare i suoi romanzi, però non lo fa. Ci sono rari innesti e qualche sporadico collegamento, ma il tentativo di abbinare le due dimensioni si esaurisce immediatamente. Troppo scarto tra i livelli e poi a Simenon non piace fare il reporter, non è interessato all’attualità, dà la caccia all’uomo non a un uomo in particolare. Mette in scene delle storie senza cogliere la storia, l’Europa ormai sul baratro non entra nell’obiettivo, la durezza della dittatura staliniana viene addolcita dalle spiagge di Odessa. Gli capita di trovarsi casualmente in un ascensore con Hitler, nel febbraio 1933, all’Hotel Kaiserhof, a Berlino, non lo percepisce, non lo fotografa. Scorre via, disinteressato a un attimo che non era il suo.