Tuttolibri, 12 aprile 2025
Intervista a Paula Fichtl
Intervista pubblicata su Tuttolibri il 2 luglio 1988
La signora Paula Fichtl, oggi ottantacinquenne, per lunghi anni al servizio di Sigmund Freud, è l’ultima testimone diretta della sua vita. Per questo i suoi ricordi acquistano un valore particolare nell’immensa bibliografia sul patriarca della psicoanalisi. Essi sono stati raccolti e pubblicati da Detlev Berthelsen sotto il titolo Alltag bei Familie Freud, die Erinnerungen der Paula Fichtl (Vita quotidiana presso la famiglia Freud, i ricordi di Paula Fichtl), ed. Hoffmann und Campe di Amburgo. Ai freudiani, che custodiscono religiosamente la memoria del loro maestro, il libro è andato di traverso. Si parla anche di processi e di controprocessi. Molte cose si sapevano già, per esempio che Anna Freud, la vestale del tempio paterno, fosse lesbica e amica di Dorothy Burlingham. È una faccenda privata che s’intona perfettamente all’atmosfera psicoanalitica della famiglia. Sconcerta, invece, apprendere che la povera Fichtl fosse costretta a dormire come un cane su una panca vicino al gabinetto, aggiustandosi il giaciglio la sera tardi e disfacendolo la mattina presto. E questo in un appartamento che, con le sue diciannove stanze e una superficie di oltre 550 metri quadrati, aveva quasi le dimensioni di una reggia. I Freud dovevano avere i loro buoni motivi, per raccomandare alla fedelissima governante di tenere la bocca chiusa. Ma il pericolo, per il mito di Freud, non consiste tanto in quello che Paula Fichtl dice, quanto nel modo con cui lo dice, cioè senza animosità e senza la minima intenzione di denigrare la famiglia cui ha dedicato tutta la vita. Sì è cercato di correre ai ripari, dicendo che l’anziana signora non ha più la memoria buona. Ma non è vero, perché ricorda benissimo. Sono andato a trovarla nel pensionato di Oberlam, vicino a Salisburgo, dove vive in una stanzetta di quattordici metri quadrati. Ma alla ristrettezza dello spazio – e non solo dello spazio – è abituata. Ciò che l’angustia è la solitudine. Nessuno va a farle visita e l’hanno messa in un posto abbastanza difficile a trovarsi. Freud volle sviare i suoi biografi: si vogliono forse far perdere anche le tracce della persona che lo conobbe così da vicino? Le gambe non la reggono più e deve muoversi su una sedia a rotelle, ma per il resto è molto vispa e perfino ironica. Le sue cose, a quanto pare, sono state diligentemente e delicatamente setacciate da mani esperte. A parte le lettere, non ha più neppure la raccolta di francobolli regalatale da Freud.
Signora Fichtl, lei è vissuta a stretto contatto di Freud dal 1929 al 1939, anno della sua morte.
«Non dal 1929, come si è scritto, ma dal 1928. Allora avevo ventisei anni».
E dopo la morte di Freud?
«Dopo la morte del professore rimasi in Inghilterra con la figlia Anna. Quando, nel 1982, morì anche lei, mi mandarono via dalla casa che era stata un po’ anche la mia. Non servivo più. E ora, a ottantasei anni, eccomi qui da sola».
Nessuno viene a trovarla, neppure i freudiani?
«Quasi nessuno».
Ho letto che Freud, quando lei si presentò la prima volta per chiedere lavoro, la guardò dall’alto in basso e si limitò a dire: Questa può rimanere».
«Il professore era riservato e di poche parole. Tenga però anche presente che faceva fatica a parlare, perché, come lei saprà, aveva un cancro alla bocca».
Causa forse del fumo?
«Non lo so. Io so soltanto che fumava come un demonio. Almeno una ventina di sigari al giorno».
Perché lei non voleva che le lunghe interviste rilasciate a Detlev Berthelsen venissero pubblicate prima della morte di Anna Freud? Aveva paura?
«Paura magari no, ma né il professore né la figlia volevano che si parlasse della loro vita privata. Non dovevo dire niente di quello che avevo visto e sentito».
Però in America, sotto la data del 9 gennaio 1956, lei scrisse nel suo taccuino: “Il redattore è venuto alle 11.30 e mi ha chiesto diverse cose sulla famiglia Freud, ma io ho avuto paura a rispondere, perché la famiglia non vuole”.
«Ricordo. Guardi, io mi comportavo e dovevo comportarmi come il prete nel confessionale, che ascolta i peccati e non ne parla in giro».
È stata la psicanalisi a suggerirle questa immagine del confessionale?
«Può darsi».
È d’accordo con quello che ha scritto Berthelsen nel suo libro?
«Non ho ancora finito di leggerlo».
Fisicamente, com’era Freud?
«Piuttosto piccolo e magro».
Pare che avesse un grande fascino sulle donne.
«Direi che ad affascinare le donne non fosse la sua persona, ma la sua teoria».
Fra i suoi pazienti erano di più le donne o gli uomini?
«Diciamo che erano di più i principi e le principesse. Un povero diavolo non se lo poteva certo permettere».
Era lei che apriva la porta e accoglieva i pazienti. Me ne potrebbe nominare qualcuno?
«Ma soprattutto dei pazienti il professore voleva che non si parlasse. Rispetto ancora la consegna».
Ha conosciuto Lou Andreas Salomé?
«Ne ho sentito parlare molto, ma non l’ho conosciuta di persona».
In compenso ha conosciuto Thomas Mann, Stefan Zweig, Bruno Walter e altre celebrità.
«Sì. E ora sentiamo che cosa vuole sapere».
Per esempio se è vero, come ha dichiarato a Berthelsen, che Freud e Thomas Mann parlarono soprattutto di sigari.
«Io li ho sentiti parlare di sigari, ma forse avranno parlato anche d’altro. Non potevo stare a sentire tutti i discorsi tra il professore e i visitatori di turno. Dovevo lavorare».
Chi le fece migliore impressione, Thomas Mann o Stefan Zweig?
«Direi Thomas Mann, per quanto fosse altezzoso e guardasse con sussiego. Era anche tutto azzimato come un cliente di barbiere. Stefan Zweig, invece, piuttosto piccolo, non aveva niente di particolare nell’aspetto».
Lei disse che vedeva entrare i pazienti depressi, ma ancora più depressi li vedeva uscire.
«Qualcuno, a onor del vero, l’ho visto uscire anche con un’aria un tantino più serena, ma non saprei dire quanto sia durata».
Lei si meraviglia ancora oggi che molti pazienti di Freud si siano suicidati. Potrebbe farmi un esempio particolare?
«I due figli della ricchissima Burlingham».
Freud faceva la raccolta non solo di francobolli, ma anche di accendisigari. Aveva anche altre manie?
«Non so se si possa parlare di manie. Comunque d’estate amava anche raccogliere i funghi nel bosco viennese».
Lei ha detto che Freud era piuttosto freddo con i figli e che non li abbracciava mai, neppure Anna.
«Diciamo che era riservato anche con i figli. Anna, comunque, era la prediletta».
È vero che Freud detestava la musica? •
«Sì e non andava mai all’Opera o al concerto».
Forse ascoltava la musica per radio.
«Questo non mi risulta».
Quale era il suo rapporto con la religione?
«Non rispettava neppure i precetti della religione ebraica. Il sabato, per lui, era un giorno come gli altri».
Aveva molti contatti con l’ambiente cittadino?
«Pochi».
C’erano molti ricevimenti in casa?
«Di rado. A parte il fatto che la signora era tirchia, più del marito, si voleva evitare di affaticare il professore, il quale aveva difficoltà a parlare».
Ho visto la casa di Freud al n. 19 della Berggasse di Vienna, compresi i locali che non sono aperti al pubblico. Come è possibile che con tante stanze lei fosse costretta a dormire su una panca?
«Non mi importava molto dormire su una panca. Mi accontentavo, mi arrangiavo. Lei non deve dimenticare che io ero una donna di servizio e che le donne di servizio, nella Vienna di allora, erano considerate alla stregua di un oggetto. Tutto dipende da come uno nasce. Ma forse oggi è diverso».
Il prof. Friedrich Hacker, parlando proprio di lei, scrive che allora una persona di servizio era qualche cosa che stava a metà tra un essere umano e un mobile, la Vienna liberale conservava ancora molto della monarchia feudale degli Absburgo.
«Conosco bene il prof. Hacker, che è stato molto gentile con me. Gli ho voluto bene. Ma ora lui non si cura più di me».
La principessa Marie Bonaparte, però, un’amica intima di Freud, la trattava amichevolmente.
«Sì, è vero. Era migliore di Anna e di Dorothy Burlingham, una persona fredda, arida, senza calore umano, egoista».
Era almeno ben pagata, signora Fichtl?
«Il salario non era molto e comunque inferiore a quello che percepiva chi faceva il mio stesso lavoro in altri posti. A Natale e al compleanno ricevevo dei regali. Ma io devo stare attenta a parlare perché ci sono ancora tanti parenti e amici che leggono quello che si scrive».
Tra i pazienti di Freud, posso chiederle se vi fossero più austriaci o stranieri?
«Stranieri, stranieri! Soprattutto americani. Ricchi, naturalmente».
Qualche italiano? •
«Non ricordo di aver visto italiani».
Lei andò volontariamente in esilio insieme con Freud?
«Sì. Mi chiesero se volessi andare con loro e io, per fedeltà, accettai. Fu il professore a chiedermelo. Mi disse: “Ora ci sono i nazisti e dobbiamo lasciare l’Austria"».
Lei ha vissuto in prima persona quegli avvenimenti. Come si svolsero effettivamente le cose? Si è scritto che Freud fu minacciato e la sua casa saccheggiata dai nazisti.
«Questo non è vero. Vennero quattro o cinque persone, ma non fecero niente e non portarono via niente. Il professore fu lasciato in pace».
Ma allora furono gli altri a indurre Freud ad abbandonare Vienna?
«Gli amici sapevano quello che capitava agli altri ebrei e non volevano che capitasse anche a lui. Lui amava l’Austria e non gli riuscì facile abbandonarla».
Sa dirmi qualche cosa circa l’orientamento politico di Freud?
«In casa, che io ricordi, non si parlava molto di politica. Comunque, il professore non ne parlava certamente con me».
Ma lei, da persona sveglia, può aver captato qualche discorso. Le risulta, per esempio, che Freud avesse simpatia per Mussolini? Ho trovato una dedica, che forse non tutti conoscono: «A Benito Mussolini con il devoto saluto di un uomo anziano che nel detentore del potere riconosce l’eroe della cultura. Vienna, 26-IV-1933. Sigmund Freud».
«Non sapevo. Mi pare solo di aver sentito dire che Mussolini intervenne a favore del professore quando si trattò di andar via da Vienna. Ma lo fecero anche altri».
Nella intervista rilasciata a Berthelsen lei dice di aver sorpreso una volta Freud nudo nel bagno e di essere rimasta Inorridita dall’enormità dei suoi attributi...
«Questo io non lo dico. Herr Professor nudo! Può anche darsi che io sia entrata nel bagno, che era sempre aperto, ma non posso ricordarlo. Quello che ha scritto Berthelsen non l’avrei mai detto, perché lo ritengo offensivo».
Nel libro c’è anche scritto che una volta Freud, dopo aver psicanalizzato una signora, non riusciva più ad alzarsi dalla sedia...
«Non me lo ricordo, non me lo ricordo».
Di che umore era, generalmente, Freud?
«Era piuttosto malinconico».
Era spiritoso?
«Poteva essere di buon umore, ma era afflitto dal male».
Si dice che non sopportasse gli scherzi.
«Non sopportava soprattutto le battute a doppio senso».
Si può dire che la famiglia di Freud fosse ricca?
«Senz’altro».
Prima ha detto che Freud non andava né all’Opera né ai concerti. Le risulta che andasse almeno in qualcuno dei caffè letterari?
«No. A parte la sua ritrosia, lei deve sempre pensare al male che aveva».
Allora c’erano anche altre celebrità a Vienna, per esempio Musil, Kraus, Roth.
«Non li ho conosciuti».
Come giudica che egli non fosse mai riuscito a diventare professore ordinario?
«Forse era troppo intelligente, per questo».
A Vienna, in quel tempo, si diceva così: prima dei cinquant’anni si è troppo giovani per diventare professore, dopo i sessanta si è troppo vecchi, e tra i cinquanta e i sessanta si è ebrei.
«Non conoscevo questo detto, ma io non sono tanto istruita».
Lei è vissuta tanto tempo accanto a Freud e quasi mai nessuno l’ha cercata. È molto strano davvero.
«È così. I giornalisti non sono mai venuti da me. Preferivano andare a chiedere le cose ai parenti del professore o magari alla Freud-Gesellschaft».
Eppure ci si rivolse a lei, che conosceva la casa meglio di tutti, per la disposizione giusta dei cimeli che si vedono nel museo della Berggasse.
«Sì, ma ora non servo più».
Si dice, non so bene in base a quale testimonianza, che Freud sia morto in seguito a una iniezione di morfina. Insomma, per eutanasia. Che cosa c’è di vero in questa diceria? Nessuno lo può sapere meglio di lei.
«Anche altri mi hanno fatto questa domanda, ma io, che ero presente, non ricordo una cosa di questo genere. Le iniezioni di morfina gli venivano fatte solo per lenire il dolore, ma nient’altro».
Chi fece l’orazione funebre?
«Stefan Zweig. Il corpo fu cremato».
E le ceneri messe in un vaso italiano che un tempo era servito come recipiente per il vino. È così?
«È così».
Lei ha detto che Herr Professor riponeva molta fiducia nel fiuto del suo cane Josie. Un paziente che non andava a genio al cane non piaceva neppure al padrone, il quale commentava: «Se uno non piace a Josie vuol dire che ha qualche cosa che non va».
«Questo valeva non solo per i pazienti, ma anche per i visitatori. E lei se ne meraviglia? Gli animali hanno un fiuto infallibile. Amavo anch’io quel cane, che stava sempre accucciato ai piedi del padrone. Anche durante le sedute e le riunioni».
Che cosa leggeva, di preferenza, Freud? Lei lo sa di sicuro, perché riordinava la sua stanza.
«Amava il romanzo inglese, ma leggeva anche molti romanzi gialli. Ne aveva sempre uno a portata di mano».
Lei ha anche detto che era vanitoso.
«Solo un poco, per esempio con il barbiere che gli aggiustava la barba e i capelli. E un poco anche con i profumi».
Pare che odiasse il telefono.
«Sì, è vero». -
Mi pare di aver capito che Anna Freud, con una generosità non proprio esemplare, le abbia lasciato solo i diritti d’autore sui suoi libri. Ma ha anche una pensione?
«No». —