Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  aprile 12 Sabato calendario

"Noi sedotti da Strindberg perché non c’è grandezza senza tormenti devastanti"

Da giovane ebbi una vera passione per Strindberg, malsana al punto che per qualche mese mi imbucai a un corso di lingua svedese alla Statale di Milano perché sognavo di leggerlo in originale.
Adesso mi domando che cosa mi avesse tanto colpito allora e, naturalmente, di motivi di fascino ce n’erano, o potevano essercene, più d’uno, ma uno svettava su tutti: Strindberg era pazzo.
Pazzo in maniera evidente, conclamata, e io da giovane, come molti giovani, ero affascinato dai pazzi. O, per meglio dire, da quel genere di intrigante pazzia che significava vivere in maniera esagerata drammatizzando tutto, in particolare l’amore.
A quel corso di lingua e letteratura svedese tenuto, mi ricordo, dalla professoressa Ludovica Koch, conobbi un altro giovane, che pure lui frequentava, essendo già laureato, e quindi da clandestino, per amore di Strindberg. Può sembrare inverosimile eppure questo avvenne. In quei mesi era appena uscita da una piccola casa editrice un’opera di Strindberg (che in svedese si pronuncia Strinberii, o qualcosa di simile, mi perdonino gli studiosi o chi sa lo svedese, ma è passato molto tempo e i miei ricordi si fanno confusi), un libretto giallo intitolato Solo (che in lingua originale è Ensam, parola che mi parve bellissima, soprattutto considerando che il suono dello svedese è piuttosto strano, molto cantilenato) e lo avevo acquistato subito. Anche l’altro giovane, scoprii mentre facevamo un pezzo di strada insieme, l’aveva comprato e lo stava leggendo, perché i giovani con ambizioni intellettuali erano – e probabilmente sono – affascinati dalla solitudine almeno tanto quanto lo erano dalla follia. Ovvio che la quarta di copertina del libro invitava a leggere Strindberg non come un caso psichiatrico «in nome di una critica piattamente medica che lo indaga come materiale dettagliato dell’evoluzione di una psicosi» ma come un grande scrittore. Il fatto è che noi non volevamo affatto «esorcizzarne la carica estetica riconducendolo al solito discorso del diverso nell’arte», ma puntavamo all’esatto contrario, perché ci piaceva l’idea che l’arte davvero autentica fosse generata da un malessere devastante, soprattutto quando questo tormento assumeva forme seducenti e grandiose, piuttosto che da un’applicazione metodica, da una volontà tanto cocciuta quanto in fondo priva di doloroso male di vivere. Io e quel giovane di allora, che non avrei visto mai più, ci eravamo riconosciuti come adepti di un culto raro e segreto, e questo ci aveva emozionato, perché nel mondo presocial era più difficile ritrovarsi affetti da una medesima manìa e quando questo avveniva si provavano una sorpresa e un senso di comunione irripetibili.
Ed eccomi, più di quarant’anni dopo, a rileggere Strindberg e a riflettere sulla follia nell’arte. Eccomi a rileggerlo in un momento della vita in cui i pazzi non hanno più alcun fascino ai miei occhi. Per averne conosciuti troppi. Di pazzi veri e di presunti tali.
L’occasione è la pubblicazione di Libri blu, antologia di una serie di libri tutti così intitolati, fitti di aforismi e considerazioni filosofiche e teologiche per un totale di più di millecinquecento pagine, che Strindberg pubblicò nell’ultima parte della sua vita e che Franco Perrelli ha curato per Carbonio Editore. Ma una volta che ci si sia così, di colpo, nuovamente immersi nel mare tenebroso di questo immenso scrittore del Nord che subito, ad apertura di pagina, con le sue zampe possenti comincia a lacerare le carni proprie, prima ancora che quelle altrui, diventa inevitabile tirare giù dagli scaffali tutto quanto di lui si possiede e mettersi freneticamente a leggere. Ecco allora che nell’Autodifesa di un folle, romanzo memoir che racconta la sua tempestosa relazione con la prima moglie Siri von Essen, lo vediamo scagliarsi come un cane rabbioso rinfacciando alla consorte di essere adultera non confessa: «Essere un marito cornuto! Cosa m’importa se lo so! L’importante è che possa essere il primo a riderne. C’è un uomo al mondo che possa dire con certezza di essere il favorito di una donna? Quando io passo in rassegna i miei amici di gioventù, oggi sposati, ce n’è uno che non sia un po’ cornuto? E loro, beati, non lo sospettano nemmeno! Non bisogna infatti andare troppo per il sottile. Essere in due o essere solo, cosa importa! Ma non saperlo, ecco il ridicolo! Ecco il punto principale: bisogna sapere!».
Ma l’accusa di adulterio è niente: per il marito la bionda Siri, che poi gli avrebbe dato ben quattro figli, è dedita anche a relazioni lesbiche, frodi finanziarie, sevizie, vampirismo! E, infine, peggio di tutto, è un’attrice tanto ambiziosa quanto modesta, nonostante il consorte drammaturgo abbia tentato con tutti i mezzi «di imporre la mia cara moglie al pubblico recalcitrante, buttargliela in faccia con tutti i trucchi del mestiere, introdurla di forza nella sua simpatia. Non valse a nulla. L’opera fu un fiasco. (…) Io perduto, colato a picco. Malgrado la cena a cento franchi a testa offerta al direttore, malgrado cinquanta franchi di multa pagati alla polizia per degli evviva strillati davanti alla porta dell’impresario in un’ora inopportuna della notte, non arrivarono altre scritture. Non vedo la mia colpa in tutto ciò. Ma il martire, la vittima ero io!».
E uno legge e si domanda: ma chi è quest’essere recriminante, questo mediocre individuo che fa i conti di quanto ha speso per aiutare la carriera della moglie e di come niente gli sia tornato indietro? Perché devo perdere tempo con queste miserie? Perché un editore a suo tempo pubblicò questo lamentoso elenco di questioni private? E molti editori di Strindberg erano rimasti in effetti, in più di un’occasione, spiazzati e perplessi.
La risposta è: perché quest’individuo spregevole nella quantificazione puntigliosa dei suoi presunti crediti, subito dopo è capace di aggiungere: «Distesa sul letto disfatto, la sua graziosa testa sepolta fra i bianchi guanciali sui quali serpeggiavano i capelli biondi come il frumento, la sottile camicia cadente dalle spalle che lasciava intravedere sotto i merletti il seno virginale, la bella forma del suo fragile corpo elegante e sinuoso sotto la coperta a strisce bianche e rosse; il piede scoperto, piede minuscolo e arcuato, perfetto, le dita rosee, sbalzate da unghie trasparenti, senza difetto: un vero capolavoro, scolpito nella carne come un antico marmo, così mi apparve mia moglie».
Perché il ménage à trois tra August, Siri non ancora divorziata e il primo marito di lei, è un gioiello di morbosità, rispetto apparente delle convenzioni sociali, ipocrisia e perversione, tradimento e solidarietà…
Perché Strindberg, quando ancora il teatro rappresentava polverosi drammi storici, sacrificava la propria carne squartata sull’altare della drammaturgia, anticipando di decenni il cinema di Bergman e anticipando una serie di autori poco equilibrati e grandiosamente ossessivi che avrebbero segnato il secolo breve col marchio della dismisura.
Ci voleva un pazzo. Il fatto è che per tutto l’Ottocento e gran parte del Novecento, quando le turbe mentali erano duramente represse dalla società, la follia degli artisti, da Poe a Gérard de Nerval a Baudelaire a Dino Campana, non ha mai costituito un handicap per la considerazione delle loro opere (questo, in verità, vale più per i poeti e gli scrittori che, ad esempio, per i pittori). Mentre da un certo punto in poi nella nostra società dello spettacolo, in cui la condanna sociale sulla malattia mentale grava assai meno di un tempo, è assai più difficile che a scrittori e poeti con disturbi psichici sia riconosciuta, senza remore, grandezza e originalità letteraria. Questo nonostante il nostro sia il tempo della scompostezza, dell’eccesso, dell’eccentricità sbandierata a tutti i costi.
Forse perché, in fondo, anche la follia sembra sempre più esibita, più simulata, più messa in scena che autentica, mentre quella vera continua a diffondere imbarazzo e disagio. Forse perché non ci si crede più: né alla letteratura né alla follia. E quindi ci sono in giro troppi falsi matti e troppi falsi eccentrici, visto che in quest’epoca di sostanziale simulazione (di lacrime, di sentimenti, di tutto) fare i matti e gli eccentrici non è difficile e non costa poi molto. Anzi, non costa niente.