Corriere della Sera, 11 aprile 2025
Intervista ad Antonio Calbi
In rue de Varenne, a metà strada tra il museo Rodin e il museo d’Orsay e proprio davanti all’ambasciata d’Italia, la sera si formano lunghe code sul marciapiede. I parigini aspettano con pazienza di entrare all’hôtel de Galliffet, l’edificio di fine Settecento che fu l’ufficio di Talleyrand e ospita oggi l’Istituto italiano di cultura. Il suo direttore (dal 2023), Antonio Calbi, è un uomo di teatro che festeggia quarant’anni di carriera e che parla con il Corriere dell’infanzia in Basilicata, della Milano degli anni Settanta e di oggi, di Roma e Parigi e di quanto i francesi amino la nostra cultura.
Che cosa l’ha portata qui?
«È un percorso molto lungo che comincia da bambino, dall’infanzia in un paesino della provincia di Matera, San Mauro Forte. Mio padre era un piccolo imprenditore edile, mia madre casalinga, io ero ossessionato dal cinema e dal teatro sin da piccolo. Alle elementari organizzai una colletta per comprare sul Postalmarket una cinepresa Super 8, ma mi piaceva soprattutto organizzare le recite scolastiche, piccoli spettacoli di circo, o da chierichetto le processioni religiose. Diciamo che ho scoperto presto la vocazione per la cultura e lo spettacolo. Poi invece di fare il protagonista ho deciso di aiutare gli altri a esprimersi, a creare. A Milano, poi a Roma e Siracusa, adesso a Parigi».
Quando ha lasciato la Basilicata per il Nord?
«Alla fine delle medie. L’attività di mio padre purtroppo è fallita, i miei ricordi passano dai notabili democristiani dell’epoca, per esempio Emilio Colombo che da piccolo mi teneva sulle ginocchia, alle difficoltà economiche. Ma sono molto grato a Milano che ci ha accolti».
Come sono stati gli inizi?
«Negli anni Settanta c’erano ancora i cartelli “non si affitta ai meridionali”, non era una leggenda. Ma alla fine abbiamo trovato casa, nella parte più popolare del quartiere di San Siro. Stavamo in via Preneste, la stessa via di Giuseppe Pinelli. A 15 anni la domenica mattina andavo a vendere a porta a porta l’Unità e il Manifesto. Ero iscritto al Liceo artistico, poi mi sono laureato al Dams di Bologna. Sono molto legato a Milano, una città che mi ha permesso di costruirmi da solo e che almeno all’epoca aveva un’identità forte, civica e popolare».
Adesso non è più così?
«Persino la Milano da bere degli anni Ottanta conservava il suo carattere. Questa nuova Milano invece non la riconosco più. Mi sembra un luna park del lusso e dell’architettura sciapa. Non amo né City Life né il nuovo quartiere Garibaldi, non c’è dialogo con la storia della città, sono palazzi che potrebbero stare ovunque, a Dubai o a Shanghai. Parigi invece è più rispettosa di se stessa, c’è la Tour Montparnasse è vero ma per il resto l’impronta haussmanniana è conservata, il quartiere degli affari e dei grattacieli è stato costruito alla Défense. Ormai Milano è in mano ai fondi finanziari, si continua a costruire e prima o poi la bolla immobiliare esploderà».
Lei ha lavorato a lungo a Milano, ma per una sindaca di centrodestra, Letizia Moratti, e con l’allora assessore alla Cultura Vittorio Sgarbi.
«Quando la Moratti mi chiamò le feci presente qual era la mia formazione. Mi rispose quasi offesa che il punto era lavorare bene, che non è né di destra né di sinistra. E anche per me è sempre stato così, non sono mai stato ideologico nel mio lavoro. Ma non tutti hanno la stessa visione, quando Giuliano Pisapia divenne sindaco fui licenziato di botto, il Pd milanese mi rimproverava di avere dato troppo lustro alla Moratti. Ma io avevo lavorato per la città, non per una parte politica. Comunque partecipai a un concorso, lo vinsi e tornai direttore del settore Spettacolo, moda e design».
E a Roma come è andata?
«Nei primi anni Duemila ho diretto il Teatro Eliseo: prendevo il Pendolino e prima di entrare a Termini vedevo i palazzi con una selva di antenne, come capelli sulla testa, ognuna per ogni appartamento, e mi chiedevo come mai l’idea milanese di condominio non avesse attecchito. E mi infastidiva la difficoltà di muoversi... Ho fatto l’antipatico milanese che scende a Roma. Poi sono stato chiamato a dirigere per cinque anni il teatro pubblico della Capitale e l’ho rilanciato. Ovviamente mi sono innamorato di Roma, di quel rapporto viscerale che hanno i romani con la loro città e con le rovine di un passato straordinario».
Diverso da Milano?
«Milano è una città usata, Roma è vissuta. I romani conoscono le storie di ogni via, di ogni chiesa. Mi sono inventato “Luce sull’archeologia”, la domenica mattina al Teatro Argentina, dove uno storico o un archeologo raccontavano un periodo di Roma».
Com’è stato lavorare con il sindaco Ignazio Marino?
«Ero arrivato da due settimane, ma sono andato da lui per proporgli di fare qualcosa per celebrare il semestre europeo a guida italiana. È venuto il Presidente Giorgio Napolitano, Giorgio Albertazzi ha recitato il canto di Ulisse della Divina Commedia, Maddalena Crippa con Leopardi, Valentina Cortese è tornata in teatro a leggere un poemetto d’amore di Giovanni Testori... Poi Marino è stato fatto fuori dai suoi, come Giulio Cesare, ma con lui abbiamo rimesso il teatro al centro della città».
Dopo Roma, Siracusa.
«Ci sono rimasto quattro anni, fino al 2022. Andare alle fonti del teatro occidentale è stata un’esperienza che ho voluto provare e si è rivelata stupefacente. Vedere il teatro greco gremito di cinquemila persone dà un’emozione indescrivibile e comprendi ancora di più la funzione sociale dell’esperienza teatrale».
Come mai la scelta di lasciare l’Italia per Parigi?
«Fare un’esperienza all’estero era un mio desiderio a trent’anni, poi non ci avevo più pensato. Ma ho notato il bando, e ho pensato di candidarmi, perché no. Un giorno stavo montando una mostra nella mia città, Matera, e ricevo una chiamata dalla Farnesina: “Guardi che lei è l’unico a non avere risposto alla convocazione, lunedì ci sono i colloqui”. Mi avevano mandato una Pec, non l’avevo vista».
E quindi?
«Sono tornato di corsa a Roma, per due giorni ho cercato di ripassare il mio francese, poi mi sono presentato al colloquio. È stato anche divertente, mi sembrava di essere a un secondo esame di laurea. Ho cercato di essere me stesso e di sdrammatizzare. Come ultima domanda mi hanno chiesto “perché dovremmo scegliere lei?”, e ho cominciato la risposta citando Flaubert, “premesso che Madame Bovary c’est moi”. Li ho fatti ridere, ma poi ho spiegato qual era il mio progetto, e alla fine hanno scelto me».
A quali eventi dell’Istituto di cultura è più legato?
«La serata d’onore per Ferruccio Soleri, con Jack Lang e l’ambasciatrice Emanuela D’Alessandro, e quella per Giulia Lazzarini, Francesca Benedetti e Umberto Orsini; i tavoli teatrali delle Ariette, i letti verdiani di Animanera: otto personaggi di altrettante opere di Verdi, ognuno nel proprio letto per una confessione faccia a faccia con uno spettatore alla volta, in un corpo a corpo interprete-spettatore con bacio finale. Parigini sconvolti! Almeno l’80 per cento del nostro pubblico è composto da francesi. Molti tornano senza neanche sapere che cosa c’è, ormai si fidano del nostro programma multidisciplinare e non scontato, realizzato grazie a uno staff generoso e affiatato. Continuo con la mia idea di cultura non imbrigliata dall’ideologia: abbiamo invitato Beatrice Venezi e Filippo Del Corno, già assessore di Pisapia, entrambi autori di un libro su Puccini; Vladimir Luxuria con un monologo su una trans e Giordano Bruno Guerri con un lavoro su Van Gogh, abbiamo proiettato un docufilm sulla guerra in Ucraina e a breve il film I bambini di Gaza, sull’amicizia fra un bambino arabo e uno ebreo».
Qual è la sua figura di riferimento?
«Su ogni scrivania che ho usato in questi miei 40 anni di lavoro c’è sempre Quarant’anni di palcoscenico di Paolo Grassi, con le pagine ingiallite e tanti appunti. La sua lezione è ancora più attuale oggi nella nostra solitudine digitale: le arti sono il cuore dell’esistenza e l’anima pulsante di una comunità. I luoghi di cultura sono necessari, diceva Grassi, come le scuole e gli ospedali».
Che cosa ha in programma?
«Nel 2026 festeggeremo i 70 anni del gemellaggio fra Roma e Parigi con un doppio ritratto teatrale delle due Capitali, mentre nel 2027 realizzeremo una Sinfonia del Mediterraneo e una Sinfonia d’Europa fatte di tanti tasselli teatrali. Abbiamo molti progetti, e per questo lancio un appello alle nostre imprese: sostenete noi di Parigi e tutta la rete degli 86 Istituti italiani di cultura nel mondo. È il momento di puntare sulla diplomazia culturale e sullo straordinario soft power dell’Italia».