Libero, 11 aprile 2025
Il polo di Priolo a Siracusa
In ballo ci sono 10 mila posti di lavoro e, a ben vedere, il tiremmolla (infinito) sul depuratore di Priolo Gargallo, in Sicilia, sta tutto qui. Perché al netto delle sentenze, dei tribunali, delle decisioni prese con la carta bollata e qualche riga di rimandi normativi sopra, è il futuro di quegli oltre 10 mila dipendenti fra diretto e indotto dell’intera area a preoccupare: 10 mila contratti sono 10 mila famiglie, che vuol dire almeno il doppio delle persone e che fanno (messi assieme) una media cittadina. D’accordo, sì, il polo di Priolo produce il 53% del pil siculo [ma com’è possibile?? in altri articoli c’è scritto il 37 per cento, o il dieci, o la metà del pil siracusano, mah, ndc], e pure questo è un fattore centrale, importante, da tenere in conto: ma per loro, per chi rischia di restare in braghe di tela, questo potrebbe essere un guaio ben più serio.
La Corte costituzionale, con la sentenza numero 38 dello scorso 4 aprile, ha sancito come costituzionalmente illegittima la norma del decreto legge numero 2 del 2023 (il cosiddetto decreto Priolo, appunto) la quale aveva individuato nel tribunale di Roma il foro competente per «gli appelli contro i provvedimenti del giudice che abbiano negato l’autorizzazione a proseguire l’attività di stabilimenti o impianti sequestrati di interessi strategico».
Serve un passo indietro per capire: a novembre dello scorso anno proprio il riesame di Roma ha confermato lo stop (peraltro già disposto precedentemente dal gip di Siracusa) alle attività di conferimento da parte delle industrie locali per il depuratore. Una notizia che, qualche mese fa, ha messo in allarme tutti: il governo, tanto per cominciare, che col ministro delle Imprese Adolfo Urso aveva ricordato come «ancora una volta la decisione di un tribunale rischia di vanificare l’azione a tutela dell’interesse generale»; e poi i sindacati del settore, con per esempio la costola siracusana della Cgil che non aveva tentennato nel parlare di possibile «colpo di grazia».
Il depuratore Ias di Priolo è di proprietà della Regione Sicilia ed è stato sequestrato dalla procura di Siracusa nel giugno del 2022 durante un’inchiesta aperta per disastro ambientale. Il suo impianto, infatti, smaltisce i reflui del distretto petrolchimico della zona (e anche quelli di una cinquantina di piccole imprese dei Comuni dell’hinterland). Indagine a parte, tuttavia, si è capito subito che a farne le spese, quantomeno nell’immediato, sarebbero stati i lavoratori e, per questo, l’esecutivo della premier Giorgia Meloni, nel 2023, ha promosso quel decreto che, in sostanza, consentiva la prosecuzione dell’attività per 36 mesi, passati i quali il depuratore si sarebbe dovuto adeguare.
Da qui ne è nata una controversia senza fine, con la magistratura di Siracusa che ha prima impugnato il decreto alla Corte Costituzionale (la quale però lo ha dichiarato legittimo a condizione che i 36 mesi fossero impiegati per colmare le irregolaità) e poi ha disposto, tramite ordinanza, la chiusura dell’impianto dato che, a suo dire, non sarebbe iniziata alcun opera di risanamento. A questo punto il governo si è a sua volta rivolto al tribunale di Roma e, la settimana scorsa, ancora la Consulta si è espressa sulla norma che designa quel foro «come unico giudice competente» sul caso.
La Corte ha osservato che «il provvedimento del giudice sarebbe stato impugnabile con lo strumento dell’appello cautelare davanti al tribunale territorialmente competente, e cioè quello del capoluogo di provincia in cui ha sede il giudice che procede». «Lo spostamento di competenza» messo nero su bianco dal decreto Priolo, quindi, «viola il principio del giudice naturale precostituito per legge e sancito dall’articolo 25 prima comma della Costituzione».
Cavilli, direbbe qualcuno. Ma cavilli che pesano e pesano soprattutto sull’incertezza delle migliaia di persone coinvolte in questa vicenda che, da mesi, aspettano la risoluzione di un problema che, di questo passo, si sta ingarbugliando sempre di più. La paralisi del depuratore di Priolo, come aveva sottolineato in precedenza Urso, è «un duro colpo per il territorio oltre che un danno irreversibile per la sua economia. Così si pregiudicano anche gli investimenti programmati per la riconversione green delle attività produttive».