Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  aprile 11 Venerdì calendario

Nucleare iraniano, il regime di Teheran è diviso sui colloqui con gli Usa (nonostante le minacce di Trump)

Una delegazione statunitense, guidata dall’inviato speciale per il medioriente Steve Witkoff, e una iraniana, capeggiata dal ministro degli Esteri Abbas Aragchi, si incontreranno il 12 aprile in Oman per l’inizio di una serie di negoziati indiretti sul programma nucleare iraniano. L’annuncio è arrivato al termine di un mese turbolento anche sul piano delle rispettive dichiarazioni, con Donald Trump che, dopo uno scambio di lettere con la Guida Suprema Ali Khamenei, ha minacciato un’azione militare sui siti nucleari in caso di un mancato accordo e gli iraniani che hanno rifiutato negoziati diretti. “Non avrebbero alcun senso con una delle parti che minaccia costantemente di ricorrere alla forza in violazione della Carta Onu ed esprimendo posizioni contraddittorie tramite i suoi diversi funzionari”, aveva commentato lo scorso sabato lo stesso Aragchi.
Contraddittorie, a dire il vero, sembrano essere anche le posizioni dei diversi centri decisionali in Iran che riflettono le difficoltà attraversate tanto dal regime quanto dal più ampio “Asse della Resistenza“. Proprio nelle ore in cui la Guida dava di fatto il proprio benestare a un ciclo di colloqui indiretti in Oman, lo scorso 5 aprile il giornale principalista Kayhan – da molti considerato il più vicino alle posizioni del Rahbar Khamenei, il quale ne nomina il direttore che da 32 anni è il radicale Hossein Shariatmadari – pubblicava un editoriale dai toni sarcastici nel quale era contenuta una velata minaccia di assassinio dello stesso presidente Trump, responsabile nel 2020 dell’uccisione di Qassem Suleimani, a capo delle Forze Al Quds dei Guardiani della Rivoluzione (Irgc).
Considerando il peso mediatico di Kayhan in Iran, appare ancor più sorprendente la reazione dell’arena politica a questo editoriale, descritto da molti centristi e riformisti come un “regalo a Trump e Israele” o come una “incauta operazione sulla pelle della sicurezza degli iraniani”. In modo quasi inedito nella storia della Repubblica Islamica, la stessa Commissione di vigilanza sulla stampa iraniana ha diffidato il giornale dal ripetere tali dichiarazioni, prendendone le distanze. Nel novembre 2017 la Commissione aveva chiuso Kayhan per due giorni dopo che il quotidiano era uscito con una prima pagina a dir poco provocatoria nella quale si augurava che gli Houthi dallo Yemen lanciassero dei missili su Dubai.
L’appello alla cautela per il giornale più vicino alla Guida sembra inserirsi all’interno del tentativo, in questa fase delicata, di bilanciare in modo sempre più complesso la retorica iraniana, che se da una parte fa intravedere aperture – forzate dalla contingenza –, dall’altra, soprattutto per bocca degli alti quadri militari delle Irgc come il comandante delle Forze della Marina dell’Irgc, Alireza Tangsiri, o quello dell’Irgc stessa, Hossein Salami, sembra non ridimensionarsi, ribadendo la piena preparazione ad una guerra con gli Stati Uniti.
Anche Ali Larijani, consigliere politico della Guida e membro conservatore-centrista di una importante famiglia iraniana, ha espresso posizioni nette dichiarando che “se gli Usa commettono degli errori sul dossier nucleare, ci costringeranno a perseguire le armi atomiche per difenderci”, smentendo quindi in un certo senso la fatwa con cui Khamenei aveva anni fa proibito il perseguimento delle armi nucleari. Se diversi religiosi iraniani, come anche il ministro della Cultura Seyyed Abbas Salehi, hanno espresso contrarietà a questa interpretazione, va anche registrato il silenzio della stessa Guida che per alcuni equivale a una forma di assenso.
Quale che sia la reale postura dell’establishment, regna sovrana, in ogni caso, la sfiducia, onda lunga del deliberato abbandono nel 2018 da parte di Trump dell’accordo sul nucleare concluso nel 2015, dopo il quale l’Iran è tornato ad arricchire uranio senza limiti. “A Teheran sono preoccupati soprattutto dell’impatto economico delle sanzioni, di un loro aumento alla luce del crollo della valuta locale e della disoccupazione. Preoccupa molto più questo di un attacco, che semmai potrebbe unificare il Paese”, ha dichiarato ad Al Jazeera Barbara Slavin dello Stimson Center di Washington.
Preoccupazioni o meno, Washington ha già mobilitato i propri mezzi militari nella previsione di un attacco. Immagini satellitari dello scorso 25 marzo mostrano il dispiegamento dei bombardieri Spirit Stealth nella base britannico-statunitense dell’isola di Diego Garcia, 1.600 km a sud dell’India e circa 3.800 km dalle coste meridionali dell’Iran. Questi velivoli sono in grado di trasportare le famigerate bombe bunker buster GBU-57, adatte alla distruzione di siti sotterranei.
Nonostante le intense nubi, c’è anche la possibilità che questo innalzamento della tensione generi alla fine una forma di intesa. Secondo l’analista Trita Parsi, intervistato da Amwaj, “le variabili più importanti sono i parametri del negoziato e di riflesso le linee rosse su cui Trump vuole insistere”. Se per alcuni il presidente americano inserisce tra di esse soltanto il programma nucleare, per altri la postura del Potus sarebbe assai più massimalista. “Se l’obiettivo è smantellare il programma nucleare come fatto con la Libia, interrompere il programma missilistico iraniano e smantellare le relazioni che Teheran ha con i suoi partner regionali, temo che la diplomazia possa morire in partenza”. Questo è sicuramente ciò che chiedono i principali sostenitori di Trump e della “massima pressione” con l’Iran: tanto esterni, come Benjamin Netanyahu, quanto interni, come Mike Pompeo o John Bolton.
Ed è anche ciò che temono alcuni in Iran: secondo Mohammad Kazem Aal-e Sadeq, ambasciatore iraniano in Iraq, nella lettera dello scorso 12 marzo Trump non si sarebbe limitato al programma nucleare ma avrebbe esplicitamente chiesto lo smantellamento delle Pmu (le milizie sciite sostenute da Teheran) e quello del programma missilistico. Una versione simile è arrivata anche da Hassan Kazemi Qomi, da molti considerato l’ambasciatore delle Forze Al Quds nella regione, che in una intervista televisiva si è spinto fino a paventare l’intenzione americana di “smantellare le milizie iraniane” e poi “dissolvere le maggiori istituzioni della Repubblica Islamica”. Kazemi Qomi è anche l’ex ambasciatore iraniano in Iraq, ed è in questa veste che nel 2007 incontrò il suo omologo americano Ryan Crocker, per quelli che furono i primi negoziati diretti tra Stati Uniti e Iran dal 1979.
Se il programma missilistico sembra davvero una linea rossa nella strategia difensiva dell’Iran, sulle milizie irachene il quadro sembra meno chiaro: da un lato sembrano almeno in parte aver recepito i rischi di una campagna militare americana – secondo fonti citate da Reuters, una serie di loro comandanti avrebbe aperto alla possibilità di deporre le armi o inquadrarsi nell’Esercito iracheno -, dall’altro il Times, citando altre fonti d’intelligence locali, ha riportato che Teheran nei giorni scorsi avrebbe trasferito presso alcuni gruppi alleati dei missili a lunga gittata (potenzialmente in grado di raggiungere l’Europa) e altri missili di gittata inferiore, come i cruise Quds 351 e i balistici Jamal 69. Sarebbe la prima volta che vettori di questo tipo vengono consegnati alle milizie. Secondo un diplomatico della regione, citato da Times of Israel, le notizie sopra citate sul disarmo delle milizie sarebbero uno “stratagemma” usato per far passare in sordina questa notizia.
Come in parte accennato dallo stesso Witkoff nel corso di un’intervista rilasciata al giornalista conservatore Tucker Carlson lo scorso 21 marzo, Trump potrebbe non perseguire la strategia massimalista sul programma nucleare di Teheran ma accontentarsi dell’istituzione di meccanismi di verifica più stringenti, che impediscano l’ottenimento di una bomba. All’opzione militare, nel caso i colloqui non vadano come sperato, potrebbe preferire in via iniziale non solo un aumento delle sanzioni dirette ma anche di tariffe secondarie sui Paesi che acquistano petrolio iraniano, come la Cina.
Esiste anche un altro aspetto – oltre all’ostruzionismo di chi è contrario a un accordo, da ambo i lati – che potrebbe indebolire il ruolo della diplomazia. L’ultimatum di due mesi lanciato da Trump nella sua lettera – “trovate un accordo o verrete bombardati come mai prima d’ora” – scade più o meno in corrispondenza del meeting quadrimestrale del Consiglio dei governatori dell’Aiea a Vienna, durante il quale ci si attende che i Paesi europei chiedano all’agenzia un report sul programma nucleare iraniano. La pubblicazione del documento è considerata l’ultimo strumento utilizzabile prima del riaffidamento del dossier iraniano al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: uno sviluppo che ci si augura possa essere scongiurato, se è vero che a Teheran lo hanno sempre considerato come prodromico di un loro abbandono del Trattato di non proliferazione nucleare.