il manifesto, 11 aprile 2025
L’illusione della de-estinzione e i metalupi
In un comunicato stampa ripreso dai media di mezzo mondo, l’azienda statunitense con sede in Texas Colossal Biosciences sostiene di aver riportato in vita una specie estinta, l’enocione conosciuto anche come metalupo. Simile nell’aspetto agli odierni lupi grigi, il metalupo scorrazzò sul pianeta per oltre 200.000 anni, prima di estinguersi 13.000 anni fa.
La Colossal lavora da quasi un decennio al sogno di riportare nella natura specie estinte come il mammut, il dodo o, appunto, il metalupo, sfruttando le moderne biotecnologie. In questo caso, gli scienziati hanno recuperato il Dna da un dente e da un osso del cranio vecchi di decine di migliaia di anni.
Il metalupo però non è stato clonato. Piuttosto, gli scienziati hanno identificato 14 geni che differenziano il metalupo dal lupo grigio. E con la tecnica CRISPR, che permette di modificare il Dna un po’ come si fa con un testo scritto al computer, hanno corretto i 14 geni nell’embrione di un lupo per attribuirgli le caratteristiche somatiche della specie estinta. Sono nati così Romolo, Remo e Kalheesi, tre cuccioli dal pelo bianco che oggi hanno sei mesi. Ma sono davvero metalupi, o dovremmo considerarli lupi grigi geneticamente modificati?
Per Beth Shapiro, responsabile scientifica di Colossal, la differenza non è rilevante. Saranno animali che, avendone le stesse caratteristiche, riempiranno la nicchia ecologica lasciata scoperta dai metalupi e non ha senso preoccuparsi della somiglianza con l’originale. Non tutti la pensano così, come ha spiegato con grande chiarezza il biologo e divulgatore Massimo Sandal sulla rivista «Le Scienze» il 9 aprile. Il metalupo è solo un lontano parente del lupo. I due rami evolutivi si sono separati diversi milioni di anni fa.
Da allora, le due specie hanno accumulato differenze che vanno ben oltre i 14 geni individuati. «La distanza evolutiva tra lupi e metalupi – scrive Sandal – è grossomodo la stessa che esiste tra esseri umani e scimpanzé, ma non basta certo alterare 14 geni di scimpanzé per ottenere una specie con lo stesso aspetto, funzionamento e ruolo ecologico di Homo sapiens».
Caratteristiche come il colore del pelo o le dimensioni sono solo i tratti più visibili che caratterizzano gli individui. Quello che separa davvero le specie è una ben più profonda e intricata rete di relazioni tra geni e altre molecole come Rna e proteine. Come esseri umani dovremmo saperlo meglio di tutti, visto che da tempo le differenze somatiche tra gruppi etnici diversi non sono ritenute sufficienti a dividere gli esseri umani in categorie diverse.
Non è l’unico aspetto discutibile dell’impresa scientifica. Lo slogan di Colossal è «Ripristinare la terra, una specie alla volta» e sulla carta l’obiettivo è nobile: fermare la sesta estinzione di massa usando la genetica per tenere o riportare in natura le specie che non reggono ai mutamenti ambientali a cui la specie umana contribuisce in modo decisivo. «Il mondo affronta il problema gigantesco dell’estinzione. E Colossal è la società che lo risolverà» si legge sul sito dell’azienda. Tutto molto ottimista e molto americano.
La natura tuttavia non è un album di figurine da riattaccare quando si staccano. Il biologo evoluzionista Stephen Jay Gould ha mostrato che l’estinzione di una specie è un mutamento che rivoluziona l’intero ecosistema e da cui è impossibile tornare indietro.
Fa niente: riporteremo in natura metalupi, dodi e mammut, per quanto spaesati, e forse madre Natura ci perdonerà. Come la geo-ingegneria per curare il clima, la de-estinzione ci affascina perché ci illude che la tecnologia offra sempre una soluzione ai danni che provochiamo.