ilsole24ore.com, 10 aprile 2025
Dare della stupida alla moglie in pubblico è maltrattamento in famiglia
Dare della stupida alla moglie e definirla incapace in presenza di altre persone può costare al marito la condanna per il reato di maltrattamenti in famiglia. E questo anche se l’uomo non ha mai alzato le mani nei confronti della donna e viene definito, da lei stessa, un gran lavoratore. La Cassazione conferma la condanna per il reato, previsto dall’articolo 572 del Codice penale, a carico del ricorrente che non perdeva occasione per definire «stupida» la moglie in presenza di terze persone e sul lavoro che lei svolgeva con il consorte: un’attività di tipo commerciale. Umiliazioni pubbliche, come riferito dai testimoni, che avvenivano anche quando c’erano le figlie minori, costrette ad ascoltare il padre che dava dell’incapace alla madre. Circostanza quest’ultima che fa scattare anche l’aggravante dei maltrattamenti assistiti, introdotta dal Codice rosso.
Maltrattamenti assistiti e Codice rosso
Una denigrazione frequente alla quale le bambine avevano a volte assistito personalmente, ma che veniva comunque percepita. La Suprema corte ricorda, infatti, che «quel che rende la condotta particolarmente riprovevole, al punto da meritarle un consistente aggravamento della pena – si legge nella sentenza – risiede nella possibilità di nuocere, oltre che alla vittima obiettivo diretto delle condotte di maltrattamenti, anche allo sviluppo psico-fisico dei minorenni». I maltrattamenti sono, infatti, da considerare “assistiti” non solo quando i bambini sono fisicamente presenti, ma anche quando il livello di conflittualità è tale da essere comunque avvertito perché «immanente nel contesto abitativo o, comunque, nei luoghi in cui si esplica la loro personalità».
Marito fedele e lavoratore
Inutile per la difesa del ricorrente, ricordare che la stessa moglie aveva chiesto, dopo la separazione, di rimettere la querela, sostenendo che il marito aveva cambiato atteggiamento: «ammise – scrivono i giudici – che il marito era stato una presenza positiva nella sua vita, essendo fedele e un gran lavoratore». Per il ricorrente la denigrazione non era costante ma solo una reazione sporadica e di impeto a dei comportamenti della donna in ambito lavorativo e domestico. Un rapporto matrimoniale sereno, quindi, che era degenerato solo quando la donna aveva manifestato l’intenzione di mettere fine all’unione. Ma la ricostruzione difensiva non regge. Per la Cassazione è provata una disistima e una denigrazione costante, manifestata apertamente anche sul posto di lavoro, con il marito in qualità di «capo».