Avvenire, 11 aprile 2025
Il posto fisso nel pubblico? Stressante e sottopagato
Il mitico “posto fisso” nel pubblico impiego non è più così mitico, anzi è ormai diventato una sorta di “piano b”. Stipendi bassi, stress, carriere ferme, contratti che non si rinnovano per anni, aggressioni fisiche e verbali, scarso riconoscimento del merito, cattiva considerazione sociale: sono i principali motivi che rendono ormai poco attrattivo lavorare per un ente locale, un ministero, un presidio ospedaliero o in un’altra diramazione della pubblica amministrazione.
A rivelarlo è una ricerca promossa dalla Cisl Fp Lombardia e realizza-ta da BiblioLavoro (il centro studi regionale del sindacato), nell’ambito di una campagna di ascolto intitolata “I Care” che ha coinvolto circa 15mila iscritti. I dati sono stati elaborati attraverso un questionario compilato da un campione di oltre mille persone, da cui emerge soprattutto che l’età media dei dipendenti è di 52 anni, segno di un ricambio generazionale che non c’è e di un comparto che sta invecchiando. Sul totale degli intervistati, il 62% sono donne, il 45% è laureato, il 41% ha un diploma di scuola superiore. Oltre la metà opera nella sanità, la restante si distribuisce fra “funzioni locali” (Comuni) e “funzioni centrali” (Enti pubblici non economici, ministeri e agenzie). Più di sei intervistati su dieci hanno un’anzianità di servizio superiore a 20 anni. Tra i principali fattori che «scoraggiano le persone ad avvicinarsi alle professioni del pubblico» ci sono la “retribuzione insufficiente rispetto al costo della vita” (83%), le “poche opportunità di crescita professionale e avanzamento di carriera” (55%) e la “mancanza di valorizzazione e riconoscimento del lavoro svolto” (51%). Il 60% si sente «spesso o sempre» stressato: a soffrire maggiormente sono le donne, il personale sanitario e i lavoratori su turni. Lo stress, per il 50%, è causato dal carico di lavoro eccessivo e per il 42% dalle carenze di organico. Circa 7 lavoratori su dieci sostengono di non ricevere alcun supporto per la gestione dello stress dalla struttura in cui operano. Lo stress influisce negativamente sul bilanciamento vitalavoro (93%), determina problemi fisici e disagio psicologico (92%), provoca demotivazione e insoddisfazione (88%) e isolamento (83%). Il grado di insoddisfazione è elevato. A pesare sono soprattutto le scarse opportunità di carriera (80%), il mancato riconoscimento del merito (78%), il poco supporto e le modeste risorse a disposizione per il lavoro (74%), il basso livello dello stipendio (71%). La frustrazione cresce soprattutto tra i lavoratori del settore sanitario, a causa dei turni estenuanti, delle aggressioni verbali e fisiche da parte dell’utenza e da un senso di insicurezza costante.
Lo scenario che emerge dalla ricerca «è preoccupante», come lo definisce la segretaria generale della Cisl Fp Lombardia, Angela Cremaschini: «c’è un’insoddisfazione crescente, a partire dai salari: con il blocco contrattuale del periodo 2010-2019 il potere d’acquisto nel pubblico impiego è calato del 16% rispetto al privato. Per questo siamo convinti che sia più che mai necessario rinnovare i contratti scaduti: le risorse per farlo ci sono e sono già state stanziate». C’è poi il grosso problema delle aggressioni del personale sanitario: «nel contratto non siglato della sanità avevamo introdotto il supporto psicologico per le vittime, oltre alla costituzione dell’ente come parte civile nei processi: non si possono lasciare sole le persone che mentre lavorano subiscono atti di violenza. Purtroppo il lavoro pubblico non è più un’aspirazione, ma un ripiego».