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 2025  aprile 10 Giovedì calendario

Intervista a Beppe Saronni

«Guardi questa foto: ha cent’anni, è rovinata però i volti si leggono bene. Il ragazzo alto e serio a destra, con lo scudetto sul petto, è Libero Ferrario, il primo italiano a vincere un Mondiale di ciclismo, nel 1923. Forte come un toro, duellava con Binda e Girardengo. Morì di tisi, giovanissimo. A sinistra, con il copertone annodato al petto, c’è Tito Brambilla».
Chi era Tito Brambilla, Giuseppe Saronni?
«Nato a Parabiago nel 1897, tornò dalla Grande Guerra con una scheggia nel ginocchio, zoppo ma capace di pedalare veloce. Analfabeta, amico per la pelle di Ferrario, era un ciclista cosiddetto indipendente. Libero lo chiamava al suo servizio a giornata di gara, lui si presentava e gli faceva da gregario. Veniva ricompensato in natura: bistecche, abiti, pasti in trattoria. Fu lui ad ispirare la mia carriera».
Come?
«Era mio nonno. Dei racconti delle sue avventure ci siamo nutriti da piccoli con i miei fratelli Alberto e Antonio, anche loro ciclisti. Tito e Libero partivano ad allenarsi per giorni verso il Lago Maggiore, dormivano nei campi o nelle cascine, mangiavano quello che trovavano. Erano racconti più da esploratori che da corridori. Un giorno ricevettero in regalo un casco di banane e loro, non avendole mai viste prima e per non sprecare nulla, divorarono anche le bucce. “Mangiabili ma meglio la polpa” fu il commento di nonno».
La fama del nipote superò subito quella del nonno. Lei vinse tutto fin da bambino.
«A 16 anni andavo alle corse con papà Romano. Quando mi vedevano, tanti ragazzi risalivano in macchina per cercare altre gare. Il dubbio sulla mia presenza c’era sempre: vincevo a braccia alzate e il regolamento lo vietava nelle giovanili. Così mi beccavo due domeniche di squalifica lasciando spazio libero agli altri se la trattativa di papà con il giudice federale per uno sconto di pena non andava a buon fine».
Il mito di Saronni pigliatutto, talento naturale.
«Talento e motivazione. A 13 anni, garzone di fornaio, consegnavo il pane in bici prima di andare a scuola. A 17, apprendista tecnico riparatore di macchine da scrivere alla Olivetti, mi allenavo all’alba: mamma metteva i biscotti a sciogliersi nella borraccia con il latte caldo. Ero già nel giro della Nazionale su pista: diventai adulto prestissimo».
Come?
«Viaggiavamo come trottole. Ricordo una gara a Berlino Est, nel 1974: arrivammo al confine di notte: i cani lupo, i fari dalle torrette, i Vopos con i mitra puntati. Ci tennero ore a fianco di una donna con due bambini piccolissimi che perquisirono facendole spremere anche i tubetti di dentifricio. La sua umiliazione fu un’enorme lezione sul valore della libertà. A Berlino con Marino Bastianello vincemmo un’Americana contro i tedeschi dopo 1.001 giri di 167 metri ciascuno. Una follia».
Nel 1976 venne convocato per le Olimpiadi a Montreal.
«Quartetto dell’Inseguimento, perdemmo contro i russi in batteria. Avevo 18 anni. Paradossalmente, mi sembrò più una gita che una gara: noi ciclisti non si aveva il culto delle Olimpiadi. Il mio sogno, l’unico, era partecipare al Giro d’Italia».
Ci arrivò a soli vent’anni, nel 1978, con una deroga speciale per via dell’età. Vinse tre tappe, fu quinto in classifica generale. Poi nel 1979…
«Si partiva da Firenze, arrivai secondo nel cronoprologo dietro a Moser. Tolsi la maglia rosa a Francesco nell’ottava tappa, a San Marino, e non la mollai più. Avevo 21 anni».
Solo Fausto Coppi vinse un Giro in età più giovane di lei.
«Non ho mai realizzato bene l’impresa. Venne tutto spontaneo e forse ero troppo giovane per godermelo».
Nasce la rivalità Saronni/Moser, una delle più spettacolari e feroci dello sport italiano.
«Era guerra e senza esclusione di colpi. Lui più vecchio, già fuoriclasse, io ragazzino venuto dal nulla a rubargli spazio e fama. Lui contadino, io quasi di città, lui idolatrato dai tifosi, io con meno supporter ma fedelissimi. Tutti e due affamati di vittorie, Francesco impulsivo, io più riflessivo ma non meno cattivo nei suoi confronti. Non potevamo non detestarci. Un giorno o l’altro dovrò raccontare davvero tutto della nostra rivalità, specie quello che succedeva in Nazionale. Ma non ora: ci siamo presi un periodo di tregua».

E vi parlate.
«Con Francesco non si parla. Parla solo lui, esiste solo lui. Al massimo puoi ascoltarlo».

Nessuno è mai stato così popolare nel ciclismo come voi due.
«Non recitavamo mai, non ci risparmiavamo mai, vincevamo tanto. Eravamo meno presenti in tv e più sulla strada e senza casco ed occhiali a nasconderci il volto. Il pubblico si esaltava. Quella popolarità me la porto ancora dietro e a volte mi imbarazza. Anni fa a Roma passeggiavo con due corridori della squadra di cui ero manager quando un gruppo di persone mi domandò una foto, chiedendo ai due di scansarsi. Erano Cunego e il povero Scarponi, entrambi vincitori di Giro d’Italia».
Qualcuno cercò di farle perdere il suo secondo Giro, quello del 1983.
«Ero in rosa dall’ottava tappa, quella di Salerno. Negli ultimi tre giorni notammo tre tipi strani che cenavano nel nostro albergo. La sera dell’arrivo finale ad Udine, uno dei tre si avvicinò: era un maresciallo dei Carabinieri, mi disse che ci seguivano da tre giorni per sventare un tentativo di avvelenamento».
Chi voleva avvelenarla?
«Un piccolo industriale lombardo che costruiva ruote per biciclette, sponsor di Roberto Visentini, del tutto inconsapevole. Provò a corrompere i camerieri perché mi mettessero del Guttalax nei piatti, ma loro chiamarono i carabinieri. Arrestato, confessò tutto. Il mio sponsor, Del Tongo, non sporse denuncia».
Roberto Visentini disse che in quel Giro lei lo sconfisse grazie ai generosissimi abbuoni per gli arrivi in volata.
«In parte aveva ragione ma era la regola dell’epoca e valeva anche per il Tour de France. Quello che Roberto non dice è che io andavo forte anche in salita. Avrei vinto anche se non fossero stati tolti dal percorso lo Stelvio e il Gavia, grazie a presunte bufere di neve alimentate da chi sosteneva il buon Moser, lui sì non brillante in salita. I media però continuavano a considerarmi solo un velocista, magari anomalo. Si ricorda il Giro del 1982?».
Cosa successe? Racconti.
«L’organizzatore Vincenzo Torriani ripropose la storica tappa Cuneo-Pinerolo e siccome il grande Bernard Hinault stava dominando, la Gazzetta dello Sport aveva già preparato il titolone: “Hinault come Coppi”. Ma vinsi io, battendo proprio Bernard».
E la Gazzetta?
«Titolò: “A Pinerolo vince un velocista”. Mi arrabbiai di brutto. Ci ho messo anni prima di perdonarli».
Lei abbandonò nel 1990. Con 193 successi, è uno dei ciclisti italiani più vincenti di sempre. Oltre ai due Giri d’Italia, un Mondiale, una Milano-Sanremo, un Lombardia. Perché decise di smettere?
«Ero usurato ma sopratutto appagato. In realtà dopo il Giro del 1983, anno d’oro come il precedente, non trovai più continuità. Avevo dato molto, forse troppo e i miei polmoni non funzionavano bene».
Ultimo sforzo prima di chiudere: dica una cosa positiva su Francesco Moser.
«Così, su due piedi?».
Provi, dai.
«Una la ricordo, ad essere sinceri. Penultima tappa del Giro 1983, traguardo a Gorizia. Mancano pochi chilometri, sono in rosa, praticamente ho vinto. Francesco si avvicina da dietro, mi dà una pacca sulla spalla e mi guarda con gli occhi lucidi: “Vai a prenderti la maglia, te la meriti. Io ho chiuso, il futuro è tuo, mi ritiro”. Giuro, rimasi scosso anzi direi commosso: una frase così da lui, mai nella vita. Pensai: ma che bel gesto».
Un passaggio di consegne in piena regola, da gran signore. Bello, no?
«Bellissimo. A fine stagione, però, invece di ritirarsi Francesco rivelò il progetto del Record dell’Ora in Messico. L’anno successivo vinse il suo primo e unico Giro d’Italia rifilandomi ventidue minuti. Ripensandoci, non era una frase da Moser: ci sono cascato con tutte le scarpe»