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 2025  aprile 10 Giovedì calendario

Jonasson: “Ma chi lo ha detto che in Svezia siamo tutti tristi?”

C’era una volta, in Svezia, un giornalista dotato di talento imprenditoriale, fondatore di una start-up di successo nel settore dei media. E che però non viveva felice e contento: «Il peso di sentirmi responsabile di tutto, perfino delle fotocopiatrici – racconta Jonas Jonasson – mi provocò un burnout. Ero ridotto in mille pezzi». Si salvò mollando tutto e riprendendo un libro iniziato anni prima: Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve, poi uscito nel 2009. Un bestseller da oltre 10 milioni di copie.
Da allora l’ex cronista è diventato scrittore a tempo pieno, rivitalizzando un genere spesso sottovalutato: la commedia. E mentre La nave di Teseo ripubblica il suo romanzo cult, insieme al sequel Il centenario che voleva salvare il mondo (2018), lo abbiamo sentito per chiedergli se l’umorismo è un atto politico. Se davvero, come diceva un celebre slogan anarchico ottocentesco, «una risata seppellirà il potere». Dalla sua casa nei sobborghi di Stoccolma, ci risponde di sì.
Jonas, la saga dell’irresistibile vecchietto Allan Karlsson mostra un uomo ordinario tra eventi straordinari: perché questa formula alla “Forrest Gump” è vincente?
«Ci ho riflettuto a lungo. Penso che i motivi siano diversi, e che cambino in base alla geografia: il romanzo è stato pubblicato in 47 Paesi, un giro del mondo che ricorda quello del mio Allan... Per esempio in Corea del Sud, dove è stato primo in classifica per molte settimane, credo sia piaciuto perché – in un Paese dove c’è grandissimo rispetto per l’autorità, al contrario della mia Svezia – un uomo che tratta allo stesso modo un presidente e un idraulico colpisce tanto».
Ma più in generale, qual è il segreto di tanto successo?
«Immagino che tocchi una corda comune a tutti noi: il desiderio di cambiare, di vivere un’altra vita. E poi il libro mette in scena personaggi e relazioni con cui riusciamo a connetterci».
Il suo eroe anziano e attivissimo – proprio come i protagonisti delle serie di altri due autori europei, l’inglese Richard Osman e l’italiano Marco Malvaldi – guida la riscossa letteraria delle persone di età avanzata: una scelta voluta?
«Non avevo questo scopo, quando ho iniziato a scrivere le avventure di Allan. Ma il tipo di intreccio che volevo sviluppare, molto centrato su eventi e personaggi del Ventesimo secolo, richiedeva un uomo che quel secolo lo avesse attraversato, e dunque molto vecchio. Guardando la cosa retrospettivamente però, l’idea di aver tifato per gli anziani mi piace:credo che faremmo bene ad ascoltarli. Da loro si impara tanto».
Al di là dell’anagrafe dei protagonisti, le sue sono definite “feelgood stories” o “up-lift stories”: regalano buonumore.
Quanto è importante, in tempi difficili e ansiogeni come i nostri?
«Lo humour è la medicina migliore per “guarire” ogni essere umano, da sempre. Ancora di più in congiunture storiche come questa. Perciò applico la ricetta a qualsiasi libro o sceneggiatura che scrivo. E poi c’è una controprova della necessità della commedia: pessimi leader come Trump, Putin, Netanyahu, Orbán, Erdogan non hanno alcun senso dell’umorismo, si prendono tutti molto sul serio».
Non è una coincidenza.
«No. L’umorismo serve per affrontare la vita nel modo giusto. Anche perché ci ricorda sempre che nulla è bianco o nero, e che ci sono invece almeno cinquanta sfumature di grigio (per citare un titolo di libro famoso). Il fatto che quei leader ne siano privi è inquietante».
Incarnano l’intolleranza al potere?
«Esatto. Amos Oz scrisse un grande saggio, intitolato How to Cure a Fanatic (in Italia Contro il fanatismo, ndr.). Dove disse tutto in poche parole: la cura è umorismo più distanza da se stessi (cioè autoironia)».
Verissimo. E allora come mai la letteratura mainstream snobba la commedia?
«Nel romanzo a cui sto lavorando adesso, e che uscirà il prossimo anno, metto a confronto Voltaire con un calzolaio, in un discorso che riguarda anche Epicuro: è il mio modo di parlare di temi seri, in un mix tra alto e basso. Qual è il problema?».
Giusta rivendicazione. Ma sul fronte editoriale la sua Svezia esporta quasi esclusivamente noir.
«La realtà è che come autore, anzi come autore di commedie, sono più preso sul serio in Germania, in Francia, nella vostra Italia che nella mia Svezia. Siamo un Paese piccolo, nel senso di poco popolato, e abbiamo grandi difficoltà a comunicare gli uni con gli altri. Sembriamo ignorare che la commedia ha prodotto capolavori assoluti della letteratura mondiale come Don Chisciotte e Candide».

Però anche il “crime” è ovunque guardato con sufficienza, mentre nella narrativa cosiddetta alta impazza l’auto fiction.
«Uno dei miei editori una volta mi ha detto: riceviamo tante bozze di romanzi da aspiranti autori di libri. Moltissimi sono ben scritti, a volte quasi poetici, spessissimo ben raccontati: peccato che non abbiano nulla da dire».
Peccato sì, perché intanto, nella realtà, il buio avanza. Perfino nella sua Svezia.
«Da noi l’immigrazione è sotto accusa. Io l’anno scorso ho subito un intervento chirurgico: il personale ospedaliero, in particolare gli infermieri, era composto tutto da immigrati.
Quando smetteremo di farli entrare, e i lavoratori attuali andranno in pensione, chi svolgeràquei lavori? E chi pagherà le tasse che finanziano le nostre pensioni?».
Un quadro fosco, che coinvolge in modi diversi l’intero Occidente: quanto è preoccupante?
«Molto. Lo scenario internazionale fa paura, non vederlo è da stupidi. Continuo però a essere ottimista sul futuro, a pensare che la situazione fisiologicamente dovrà migliorare: ma non so quanto diventerà drammatica prima di quel miglioramento».
Cosa teme in particolare?
«Ho visto una serie tv americana, Landman, ambientata tra le società petrolifere del Texas. Quello che mi ha colpito è che per i texani il Texas è l’unico posto che esiste al mondo, se ne fregano delle proteste a Istanbul o dei guai giudiziari di Marine Le Pen. Temo il giorno in cui tutti diventeremo “texani”».