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 2025  aprile 10 Giovedì calendario

Una notte con i cacciatori di droni nel mare che non conosce tregua

Sotto lo sguardo del giovane comandante, il cauto timoniere spinge la manetta che fa guadagnare nodi al pattugliatore. In guerra anche i battelli devono insinuarsi come gli incursori: mai attirare l’attenzione; cogliere di sorpresa. A leggere le cronache da Washington, qui dovrebbe essere in vigore un cessate il fuoco marittimo. I frequenti spari per abbattere i droni dicono il contrario. «Il nostro obiettivo è proteggere il Paese dagli attacchi russi e garantire la sicurezza della navigazione», scandisce il capitano Mikhailo. Tradotto: intercettare i droni “Uav” e abbatterli; scortare le poche navi che entrano in porto e salpano con il carico di cereali; localizzare le mine e farle saltare per aria. Per l’equipaggio vuol dire puntare lo sguardo sugli abissi e non perdere di vista il firmamento. E viceversa. Perché si può rischiare di avvistare un Uav e non vedere una mina. Oppure, scovare l’ordigno mimetizzato tra i flutti mentre gli Shahed di fabbricazione iraniana piombano all’improvviso.
Ci sono cose che in questa cronaca non leggerete. Il permesso per salire a bordo ci è stato eccezionalmente accordato. A una condizione: «Non possiamo rischiare di fornire inavvertitamente informazioni sensibili al nemico», spiega Volodymyr, che sembrava venuto a bordo per tenere a bada le nostre curiosità, e invece si assicura solo che una serie di dettagli tecnici e operativi restino sul taccuino, e che le fotografie non mettano a repentaglio l’equipaggio, che poi vuol dire la sicurezza del vertice settentrionale del Mar Nero. A parte il volto del comandante, segreto resterà il nome del vascello, il codice numerico internazionale, le fattezze dei militari, i dettagli che possono far risalire alla posizione e alle manovre nel porto e in mare. Nessuna di queste informazioni deve essere resa pubblica. Anche perché da sola la tecnologia non basta. Il volo ad alta velocità e a bassa quota è nemico dei radar, per fare un esempio. Escogitare contromisure efficaci è una di quelle abilità che solo a fine guerra potranno essere condivise. Quando le possibilità di passare da predatore a preda crescono, il tempo di reazione è tutto. Le basi di lancio dalla Crimea distano circa 350 chilometri dalle coste meridionali dell’Ucraina, ma non di rado ordigni volanti vengono scagliati dal nord della penisola, a poche decine di chilometri da Odessa. Anche le mine navali sono un nemico perfido. «I russi – spiega il capitano – usano ordigni che esplodono al contatto con altre navi, oppure per detonazione sonora o per induzione magnetica». Esplodono anche solo avvicinandosi.
Il pattugliatore si prepara a un’altra battaglia equipaggiato da una mezza dozzina di mitragliere su ogni lato dello scafo, un cannoncino antiaereo automatico a doppia canna, altre armi automatiche sulla torretta e i fucili di cui dispone l’equipaggio: marinai incursori della Marina, di cui durante la navigazione vedremo solo gli occhi che sbucano dai passamontagna.
All’inizio della guerra, l’Ucraina sul piano marittimo era sfavorita. Nel 2014 perse due terzi delle risorse navali. La flotta militare di Kiev faceva base in Crimea. Quell’anno Putin si prese la penisola e l’intero naviglio di Kiev restò lì ad arrugginire. Nel 2022, con l’avvio dell’invasione, le forze russe affondarono quei vascelli tenuti alla catena. Quando l’aggressione si scatenò su Kiev, all’alba del 24 febbraio 2022 una nave russa si avvicinò a Byle, l’Isola dei Serpenti. Intimò alla postazione militare ucraina di arrendersi. Ne ricevette via radio un invito ad andare a quel paese. E Byle cadde in mano moscovita. Sembrava tutto perduto, quando l’autoproclamata invincibile armata del Mar Nero vide affondare una dopo l’altra le sue ammiraglie, a cominciare dalla Moskva, la portaerei colata a picco per merito di marinai come quelli che adesso governano la motovedetta. Riuscirono ad avvicinarsi nel buio, mettendo in acqua un missile Neptune, troppo tardi perché le contromisure russe potessero fare qualcosa. Anche l’Isola dei Serpenti è tornata in mano ucraina. Da allora la marina militare russa si è spostata dall’altra parte della Crimea, facendosi scudo della terraferma. Le fregate di Mosca non escono più allo scoperto, dopo che la reazione delle forze armate di Kiev ha decimato il naviglio e ferito l’orgoglio di una Russia che credeva d’essere temuta e invincibile su ogni rotta.
A bordo le avvertenze sui portelloni sono in inglese. Il battello è dono degli Stati Uniti. Un vecchio e scorbutico pattugliatore rimesso a nuovo e addomesticato dai ragazzi che oramai maneggiano con disinvoltura il palmare di ultima generazione e il micidiale mitragliatore sovietico. Attraverso l’Atlantico e il Mediterraneo il battello è giunto fino al golfo di Odessa, dove ogni notte sfida il consueto sciame di droni, abbattendone la metà e lasciando che la contraerea posizionata sul litorale completi il lavoro. Se non ci fossero questi soldati del mare a decimare le ondate, a terra se la vedrebbero ancora peggio. «Insieme ad altri marinai ucraini abbiamo svolto un periodo di formazione e addestramento negli Stati Uniti», spiegano dalla plancia dopo avere preso il largo e il golfo quasi non si vede più. Prendere confidenza con una nuova nave è un po’ come addomesticare dei purosangue. A questo si erano preparati gli equipaggi mandati negli States. Washington aveva promesso tre motovedette. Abbastanza per tenere alla larga gli agguati marittimi e tenere in sicurezza il “Corridoio del grano”. Il piano originario prevedeva che la flotta militare pattugliasse le acque territoriali ucraine che da Odessa guardano a sud fino al confine marittimo con la Romania. Un canale sicuro, ampio una dozzina di miglia, per proteggere e rilanciare i commerci. Dopo che Trump è tornato a mettere piede alla Casa Bianca, le altre due motonavi militari sono rimaste negli Usa. «Sono un ufficiale della Marina ucraina, non un politico», avverte il comandante spiegando che a certe domande non risponderà. Con garbo alternerà i frequenti «non posso rispondere» alternati al più formale «sono informazioni classificate». Mikhailo è giovane, ma tutti riconoscono che sia molto esperto. Le statistiche stanno dalla sua. Ogni due Shahed iraniani che gli passano sopra, uno finisce in pezzi. «Poi dobbiamo cercare tra le onde i residui, perché se un drone precipita ma non esplode, allora diventa un pericolo per la navigazione». Come segugi da riporto vanno in cerca del relitto per farlo scoppiare con un tiro a segno dei mitra.
C’è poco da sognare quando si va per mare con la divisa da soldato. Per i navigatori l’orizzonte è il richiamo di nuove scoperte. Per i combattenti è il proscenio da dove in controluce dardeggia la sagoma del nemico. È come andare in prima linea senza trincee, senza fortificazioni a fare da scudo. «La volta peggiore è stato quando i russi ci hanno attaccato di notte, in mare aperto, volevano affondarci, e noi eravamo alla portata del loro tiro e in mare non è che puoi nasconderti», rammenta il comandante che ci parla vicino, ma tiene lo sguardo lontano. Ha imparato in fretta che sulla lunga distanza un gabbiano e un drone Shahed possono essere scambiati l’uno per l’altro, anche se il radar non lo dice. Ma sbagliarsi sul conto di un uccello acquatico non è come per un ordigno che piomba a 180 chilometri orari, quattro volte più veloce della motovedetta.
Come pensa che finirà? In quel preciso momento, smette di parlare da comandante. Si ferma a guardare il mare, un silenzio che paralizza il tempo sulla plancia di comando che dondola su un mare neanche troppo mosso. Forse per piegare la commozione, forse per trovare oltre la gittata del cannone parole senza retorica: «Quello che desidero è la pace, non solo la fine della guerra. Vorrei lo scambio completo di tutti i prigionieri, da una parte e dall’altra. Ho perso amici, colleghi, in questa guerra. Ma la pace deve essere vera, deve onorare il sangue di chi è morto. E deve assicurarci che tutto questo non accadrà mai più. A che serve una pace senza essere certi che la Russia non ci attaccherà ancora?».
A rotta invertita, con l’orizzonte fatto ora di scogliere selvagge e di piatte banchine di metallo e cemento, Odessa si staglia con il suo leggendario porto. Da lontano le ciclopiche gru che un tempo non stavano mai ferme, ora sembrano girasoli appassiti. Gli arti d’acciaio si sgranchiscono poco tra un cargo e l’altro. La folla dei portuali, dei faccendieri, dei mercanti di pescato e bastimenti, è sparita. Mentre le motonavi per turisti arrugginiscono nell’attesa che la guerra finisca, e Odessa torni ad essere l’avvenente meta di un tempo. Da terra avvisano che un gruppo di droni è in avvicinamento. Arriveranno prima del tramonto. Il comandante Mikhailo è pronto. È abituato a fare da avamposto, senza fuoco di copertura né rinforzi alle sue spalle. Poco prima alcuni marinai hanno bevuto acqua di mare. Un rito solenne per chi ha appena saputo di aver meritato un posto nell’equipaggio. Avviene a poppa, dove c’è più spazio. Davanti ai commilitoni si butta giù in un lungo sorso una caraffa d’acqua salata, giurando che quella sarà l’ultima. È la promessa di non affogare mai. Il loro modo per dire che da soldati si arrenderanno solo alla pace, non a Putin.