Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  aprile 10 Giovedì calendario

Sui glaiatori

Notizie tratte da Morituri. La vera storia dei gladiatori, di Luca Fezzi e Marco Rocco, Garzanti, 352 pagine, 19 euro
 
Claudio La frase «Morituri te salutant!» è testimoniata solo una volta, dal biografo latino Gaio Svetonio Tranquillo, nella Vita dell’imperatore Claudio. A pronunciarla non furono gladiatori ma condannati a morte, ben 19.000 (come riporta Tacito, Annali, 12,56,2), sul lago Fucino, nella riproduzione cruenta della battaglia navale tra rodiesi e siciliani. Claudio, al grido di quella folla di disgraziati, rispose «aut non», «forse no», al che quelli, come se fosse stata concessa loro la grazia, non vollero più combattere. L’imperatore, pur notoriamente claudicante, allora corse qua e là intorno al lago, in parte minacciando e in parte supplicando, costringendoli a combattere.
 
Primi I primi gladiatori della storia romana, secondo la tradizione: tre coppie di combattenti che si sfidarono tra di loro nell’attuale piazza Bocca della Verità, al termine delle esequie del senatore Decimo Giunio Bruto Pera. Era il 264 a.C. Il poeta Decimo Magno Ausonio, riferisce che i combattenti erano traci (Thraeces), equipaggiati con elmo, schinieri, un piccolo scudo e una lama corta e ricurva.
 
Sangue Tra i romani era consuetudine di offrire alle anime dei morti libagioni di latte e sangue e immolare prigionieri (bustuarii) presso il luogo d’incinerazione del defunto (bustum).
 
Munus Il fenomeno della gladiatura spiegato da Quinto Settimio Fiorente Tertulliano, apologeta e teologo cristiano, nel 197: «Lo spettacolo più famoso e più popolare, chiamato munus per il fatto di essere un officium. Gli antichi pensavano di rendere, attraverso questo tipo di spettacolo, un servizio ai defunti, dopo averlo temperato con una forma di atrocità più “umana”. Una volta, in virtù della credenza che le anime dei defunti fossero rese propizie dal sangue umano, si sacrificavano nei funerali prigionieri o schiavi di bassa quotazione commerciale. Successivamente si pensò di mascherare questa crudeltà con qualcosa di piacevole: sicché le persone che erano state procurate per questo scopo, dopo essere state, nei limiti del possibile, istruite alle armi, in misura sufficiente per imparare a morire, nel giorno stabilito per le esequie erano consegnate presso i sepolcri».
 
Patroclo Omero (VIII secolo a.C.)  nel ventitreesimo canto dell’Iliade descrive i funerali organizzati da Achille per l’amico Patroclo. Dopo che il corpo del defunto è arso sulla pira, l’eroe indice gare atletiche per i greci, compreso un duello in armi che contrappone due tra i più valorosi guerrieri, Aiace Telamonio e Diomede.
 
Arena Alla fine del I secolo, Marco Fabio Quintiliano, oratore e maestro di retorica, definiva gladiatore «colui che combatte nell’arena sotto gli occhi del popolo».
 
Perizoma Sui rilievi delle urne funerarie etrusche del V-III secolo a.C. spesso sono rappresentati combattimenti tra pugili o uomini armati, a volte accompagnati da una terza figura, forse un arbitro. I personaggi appaiono ora nudi o cinti da un perizoma o un corto mantello, con spada e scudo, a volte protetti anche da armatura.
 
Caronte I personaggi incaricati di trascinare via, al termine dello scontro, i cadaveri di uomini e animali, brandivano un martello, un attributo tipico del Caronte etrusco, una figura associata a Mercurio Psicopompo, il dio che conduceva le anime nell’aldilà.
 
Etruschi Le origini controverse della tradizione dei gladiatori. La tesi privilegiata è che i romani abbiano mutuato dagli etruschi una forma embrionale di gladiatura, nata però in Campania, forse per impulso della cultura della Magna Grecia.
 
Phersu Il gioco del phersu, diffuso tra gli etruschi dove un uomo mascherato (il phersu, appunto, da cui forse il latino “persona”, “maschera”) aizza un cane contro un prigioniero incappucciato e armato di clava.
 
Tarquinio Un frammento di Gaio Svetonio Tranquillo, storico di età imperiale (I-II secolo), attribuiva l’organizzazione continuativa di combattimenti tra due coppie di gladiatori al re Tarquinio Prisco, iniziatore, alla fine del VII secolo a.C., della fase della monarchia detta appunto «etrusca».
 
Foro Nel 200 a.C. combatterono nel Foro di Roma venticinque coppie, in occasione dei quattro giorni di giochi funebri in onore di Marco Valerio Levino, allestiti da Publio e Marco per il padre, due volte console e tra i protagonisti della seconda guerra punica e della prima guerra macedonica.
 
Pontefice Nel 183 a.C. i funerali di Publio Licinio Crasso Divite, pontefice massimo (la più alta autorità religiosa romana), furono onorati con tre giorni di giochi, durante i quali si scontrarono centoventi gladiatori.
 
Caccia Le venationes, le cacce, in cui i venatores, gladiatori specializzati, talvolta servendosi di grossi cani, inseguivano e abbattevano per il divertimento degli spettatori belve sia addomesticate sia selvatiche, spesso esotiche e feroci. A volte gli animali venivano prima ammaestrati, forse per ridurre il rischio per gli uomini. In altre erano fatte combattere tra loro.
 
Cavallo «Ho visto là ogni specie di animali, lepri bianche come la neve e cinghiali cornuti, e un animale raro anche nelle foreste dove nasce, l’alce. Ho visto anche tori: agli uni, quando levano la testa, si alza sul dorso una protuberanza orribile, gli altri scuotono lungo il collo una criniera ispida, a essi pende dal mento una barba ruvida e le loro giogaie stanno irte di setole tremolanti. E non solo mostri delle foreste mi è capitato di vedere, ma ho assistito anche alle lotte fra vitelli marini e orsi, e ho visto la razza deforme, che prende il nome dal cavallo, e nasce in quel fiume che, a primavera, irriga con le sue acque i campi lungo le sponde» (le venationes raccontate in un poemetto di Tito Calpurnio Siculo in onore dell’imperatore Nerone).
 
Agostino Agostino descrisse il circolo vizioso che si innescava tra ciò che accadeva nell’arena e le persone stipate sugli spalti: la folle ferocia omicida dei gladiatori suscitava l’amore e gli applausi del pubblico, la cui eccitazione a sua volta si nutriva di quegli stessi applausi.
 
Africa Dopo il sacco di Roma del 410 a opera dei visigoti, il vescovo d’Ippona contrappose l’ascolto della Parola di Dio alla completa futilità dei munera, che tanto appassionavano i ricchi profughi giunti in Africa dall’Italia.
 
Crimine «Il crimine pubblico dei gladiatori è stato cancellato dalla devozione religiosa dei Principi» (Massimo, vescovo di Torino, all’inizio del V secolo).
 
Costantino Costantino, il primo imperatore cristiano, nel 325 promulgò a Berytus (Beirut) una legge con la quale commutò in lavori forzati nelle miniere (ad metalla) le condanne a esibirsi nell’arena, affermando di non ritenere gli spettacoli cruenti un passatempo adatto ai cittadini in tempo di pace.
 
Divieti Nel 365 Valentiniano I vietò di condannare i rei di fede cristiana a essere reclusi in una scuola di gladiatori, ma il pubblico continuava ad apprezzare e pretendere i munera, che pure erano ormai meno consueti di un tempo. In alcuni luoghi fu necessario restaurare gli anfiteatri anche per iniziativa di privati, come accadde a Velletri nel 364-367.
 
Ultima Il permesso di allestire quella che, invece, pare essere stata l’ultima venatio fu concesso nel 523 al console Flavio Anicio Massimo. L’autorizzazione giunse, seppur con grande riluttanza, dalla massima autorità di Roma e dell’Italia del tempo, il re ostrogoto Teodorico.
 
Colosseo L’Anfiteatro Flavio, ovvero il Colosseo, subì interventi di restauro fino al VI secolo, prima di essere abbandonato alla rovina e all’occupazione a scopo abitativo, depredato dei materiali più pregiati o utili.
 
Campioni Molti dei campioni che sarebbero scesi nell’arena erano ben noti al pubblico, e ciascun appassionato aveva i propri beniamini. Nel 158 Apuleio lamentava il fatto che il giovanissimo Sicinio Pudente, suo figliastro nonché rampollo di un’illustre famiglia di Oea (Tripoli), pur non sapendo ancora esprimersi in latino, conoscesse a menadito i nomi di tutti i gladiatori locali e la cronistoria di ogni loro combattimento e ferita.
 
Lanista Ogni gladiatore, che non appartenesse a un potente privato o all’imperatore, obbediva al lanista, ovvero il proprio reclutatore nonché, spesso, allenatore e padrone. Un impresario il cui scopo era far fruttare la propria familia gladiatoria. In quanto dediti al mercimonio di carne umana, i lanistae a livello sociale e giuridico erano considerati feccia.
 
Macellaio Il termine lanista potrebbe derivare da lanius, «macellaio».
 
Merce Di una familia gladiatoria potevano far parte diversi tipi di individui, talvolta suddivisi in squadre (laciniae) al comando di specifici incaricati, secondo una gerarchia ben organizzata ma i cui dettagli oggi sfuggono. Quasi tutti i combattenti erano merce preziosa e costosa per chi li nutriva e addestrava, perciò era piuttosto raro che scendessero nell’arena più di due o tre volte all’anno.
 
Numeri Un certo Massimo, che a Roma nel I secolo ottenne trentasei vittorie. O Generoso, che a Verona nel II secolo combatté per ventisette volte, mentre Fiamma, a Palermo, morì a trent’anni nel corso del suo trentaquattresimo combattimento.
 
Etnie Spesso i gladiatori (soprattutto se prigionieri di guerra – captivi) erano tratti dalle genti più bellicose e tenaci con cui Roma si confrontò nel corso delle conquiste. Nel periodo repubblicano i più diffusi furono prima i sanniti dell’Appennino centro-meridionale, poi i galli del Nord e infine i traci del Sud-est europeo. In età imperiale, il bacino a cui attingere si estese soprattutto prima agli svevi della Germania e ai daci del Danubio, poi ai britanni, più tardi a siriani e ad altri germani (soprattutto franchi e vandali), infine a sarmati, goti, blemmi, isauri: tutti popoli stanziati sul Danubio, in Nubia e sulle montagne dell’Asia Minore.
 
Cristiani I damnati ad gladium o ad bestias erano sia condannati a morte (noxii) per reati gravi di vario genere, appartenenti soprattutto alle classi sociali inferiori o privi della cittadinanza romana, sia prigionieri di guerra. Dalla fine del II secolo all’inizio del IV si trattò spesso di cristiani. Venivano venduti a prezzo stracciato dai tribunali agli editores, con la clausola che questi provvedessero alla loro esecuzione pubblica entro un limite di tempo prefissato.
 
Malcapitati Le cronache narrano di malcapitati trascinati giù dagli spalti e gettati nell’arena per un’improvvisa decisione di imperatori malvagi e squilibrati. Della collera impaziente di Claudio facevano le spese operai e schiavi, ogni volta che un congegno o un macchinario dell’arena non funzionava a dovere.
 
Tifo Domiziano non perdonava la colpa di tifare per gladiatori diversi dai suoi beniamini.
 
Caligola/1 Caligola, invidioso di tale Esio Proculo, detto Colossero, bello e aitante figlio di un centurione di alto grado, non si accontentò di farlo combattere senza preavviso contro due gladiatori consecutivamente, ma lo fece poi giustiziare, malgrado il giovane avesse sconfitto entrambi gli avversari.
 
Caligola/2 Sempre Caligola costrinse a battersi come gladiatore un illustre cavaliere, reo di avere insultato la memoria di Vipsania Agrippina, madre dell’imperatore, e pure in questo caso fece trucidare il malcapitato, che era uscito vittorioso dallo scontro.
 
Caligola/3 Caligola mise a morte nel circo persino il proprio cugino, Tolemeo re di Mauretania, che in quei giorni era ospite a Roma con tutti gli onori. In un’altra occasione, in mancanza di condannati da gettare alle belve, Caligola ordinò di dar loro in pasto alcuni spettatori, ai quali fece tagliare preventivamente la lingua perché non potessero protestare.
 
Esecuzioni Col tempo, le esecuzioni furono rese sempre più varie e fantasiose, per non annoiare lo spettatore e accrescere la portata «educativa» e morale dello spettacolo. Il condannato era a volte incatenato in cima a una pedana raggiungibile da scale, oppure legato su un carrozzino spinto fra le belve tramite una pertica, o ancora immobilizzato da una sorta di camicia di forza.
 
Asino Forse non è solo frutto dell’immaginazione di Apuleio la condanna, inflitta a un’avvelenatrice, a essere stuprata a morte dall’asino protagonista del romanzo, il quale all’ultimo momento riesce a sottrarsi al mostruoso compito.
 
Schiavi Un migliaio di schiavi superstiti della seconda rivolta servile di Sicilia, presi prigionieri dal proconsole Manio Aquilio nel 100 a.C., prima di essere esibiti nel circo per combattere contro le belve preferirono darsi tutti la morte l’un l’altro.
 
Suicidi Seneca ricorda tre casi di captivi che si tolsero la vita per non esporsi al ludibrio della folla, e li elogia come esempi di coraggio e di aspirazione alla libertà di fronte a una morte inevitabile. Il primo era un prigioniero germanico destinato all’esecuzione ad bestias: finse di avere bisogno della latrina, allo scopo di liberarsi dei suoi guardiani per qualche minuto, poi afferrò il bastone dotato di spugna all’estremità, fornito per la pulizia personale dopo l’espletamento dei bisogni corporali, e se lo infilò in gola fino a morire soffocato. Il secondo, anche lui condannato ad bestias, infilò la testa tra le ruote del carro che lo stava trasportando al luogo del supplizio, per troncarsi l’osso del collo. E infine un barbaro, durante una naumachia, si uccise con la lancia che gli era stata fornita per combattere.
 
Volontari Un certo numero di gladiatori era volontario. non solo liberti ma anche ingenui, cioè uomini liberi fin dalla nascita. In qualche caso appartenevano addirittura alle classi sociali più elevate.
 
Volontari/2 Chi volesse diventare gladiatore era tenuto a farne dichiarazione ufficiale di fronte a un tribuno della plebe o a un magistrato municipale, il quale si assicurava che il candidato avesse età e costituzione adatte e che un lanista o un editor gli corrispondesse un premio per l’ingaggio. Quindi il volontario firmava le clausole del contratto e pronunciava una formula di rito con cui accettava «di essere bruciato, legato, fustigato e ucciso».
 
Feccia Il gladiatore volontario era un auctoratus depugnandi causa, cioè un uomo libero che si vendeva a un lanista e riceveva un compenso per combattere. In virtù dell’ingaggio negoziato, il lanista poteva «affittarlo» ad altri e denunciarne il furto, qualora gli venisse sottratto, come se fosse uno schiavo. Perciò il gladiatore volontario, proprio come uno schiavo, era considerato feccia sociale: gli era vietato di candidarsi alle cariche pubbliche e di testimoniare in tribunale e, se colto in flagrante adulterio, poteva essere ucciso impunemente dal marito offeso.
 
Auctocrati Gli appartenenti alle classi superiori, cavalieri e senatori, che scegliessero per sé la vita degli auctorati (come avveniva per qualunque atleta o artista che si esibisse in pubblico), perdevano per sempre ogni titolo, prerogativa e simbolo esteriore di prestigio e privilegio. Né potevano recuperarlo dopo il ritiro dall’attività.
 
Donne I combattimenti tra donne sotto gli occhi di un pubblico restarono quindi un fenomeno eccezionale. Erano una circostanza del tutto contraria alla mentalità e al costume romano. All’inizio, si trattò soltanto della stravaganza perversa di qualche capriccioso padrone di schiave, circoscritta all’ambito privato. All’epoca di Augusto un uomo espresse la volontà che alla propria morte combattessero tra loro non solo i propri giovani amanti, ma anche parecchie donne avvenenti di cui era proprietario. Il testamento destò scandalo e fu annullato.
 
Nobildonne Tacito riporta come un’indecenza il fatto che nel 63, sotto Nerone, fossero scese nell’arena molte nobildonne, oltre a senatori.
@font-face {font-family:"Cambria Math”; panose-1:2 4 5 3 5 4 6 3 2 4; mso-font-charset:0; mso-generic-font-family:roman; mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:-536870145 1107305727 0 0 415 0;}@font-face {font-family:Aptos; panose-1:2 11 0 4 2 2 2 2 2 4; mso-font-charset:0; mso-generic-font-family:swiss; mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:536871559 3 0 0 415 0;}p.MsoNormal, li.MsoNormal, div.MsoNormal {mso-style-unhide:no; mso-style-qformat:yes; mso-style-parent:"”; margin:0cm; mso-pagination:widow-orphan; font-size:12.0pt; font-family:"Aptos”,sans-serif; mso-fareast-font-family:Aptos; mso-bidi-font-family:"Times New Roman”; mso-font-kerning:1.0pt; mso-fareast-language:EN-US;}.MsoChpDefault {mso-style-type:export-only; mso-default-props:yes; font-size:10.0pt; mso-ansi-font-size:10.0pt; mso-bidi-font-size:10.0pt; font-family:"Aptos”,sans-serif; mso-ascii-font-family:Aptos; mso-fareast-font-family:Aptos; mso-hansi-font-family:Aptos; mso-font-kerning:0pt; mso-ligatures:none;}div.WordSection1 {page:WordSection1;} @font-face {font-family:"Cambria Math”; panose-1:2 4 5 3 5 4 6 3 2 4; mso-font-charset:0; mso-generic-font-family:roman; mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:-536870145 1107305727 0 0 415 0;}@font-face {font-family:Times; panose-1:0 0 5 0 0 0 0 2 0 0; mso-font-alt:"Times New Roman”; mso-font-charset:0; mso-generic-font-family:auto; mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:3 0 0 0 1 0;}p.MsoNormal, li.MsoNormal, div.MsoNormal {mso-style-unhide:no; mso-style-qformat:yes; mso-style-parent:"”; margin:0cm; mso-pagination:widow-orphan; font-size:18.0pt; font-family:Times; mso-fareast-font-family:"Times New Roman”; mso-fareast-theme-font:minor-fareast; mso-bidi-font-family:"Times New Roman”; mso-bidi-theme-font:minor-bidi;}.MsoChpDefault {mso-style-type:export-only; mso-default-props:yes; font-size:28.0pt; mso-ansi-font-size:28.0pt; mso-bidi-font-size:28.0pt; mso-fareast-font-family:Calibri; mso-fareast-theme-font:minor-latin; mso-font-kerning:0pt; mso-ligatures:none; mso-fareast-language:EN-US; mso-bidi-font-style:italic;}.MsoPapDefault {mso-style-type:export-only; margin-bottom:10.0pt;}div.WordSection1 {page:WordSection1;}