repubblica.it, 9 aprile 2025
Gaza, il sopravvissuto della strage dei paramedici: “Ho visto l’orrore”. E spunta un audio inedito
Un sopravvissuto, un disperso che forse è ancora vivo e un telefono rimasto segretamente in linea con la sala operativa della Mezzaluna Rossa possono scrivere il capitolo mancante della strage dei paramedici. Ossia, cosa è successo dopo che i soldati israeliani della Brigata Golani hanno sparato centinaia di colpi contro le ambulanze a Rafah, la mattina del 23 marzo scorso. C’erano dei feriti che si potevano salvare? Qualcuno è stato ucciso in un’esecuzione ravvicinata?
Un sopravvissuto, dicevamo. Si tratta di Munther Abed, 27 anni, volontario della Mezzaluna Rossa dal 2015. È a bordo della prima ambulanza coinvolta nell’assalto delle forze armate israeliane (Idf), che, vedremo, è avvenuto in un’unica località, sulla strada di Hashashin, ma in tre momenti distinti e nell’arco di circa un’ora e venti.
Abed, insieme con due colleghi, è stato chiamato alle 3.55 dalla sala operativa per un soccorso chiesto dagli abitanti di una casa bombardata. “Siamo partiti dall’ospedale da campo britannico di al-Mawasi. L’ambulanza aveva le luci di emergenza accese, sia dentro che fuori l’abitacolo”, racconta il paramedico. “All’improvviso i proiettili sul veicolo, quel tintinnìo terribile. Sparavano talmente tanto che l’ambulanza si è spenta, tutti i comandi elettrici interni, le luci e i fanali hanno smesso di funzionare”.
Abed si salva perché è seduto dietro, raggomitolato sotto al sedile. “Se avessi alzato la testa sarei morto”. Non vede ma sente gli ultimi respiri dei due colleghi davanti. Di lì a poco i soldati, appostati nel buio a una cinquantina di metri, si avvicinano.
“Non so perché non hanno ucciso anche me”
“Ho sentito le voci in ebraico, indossavano le uniformi dell’esercito e i visori notturni. Mi hanno trascinato fuori dal veicolo, sulla sabbia, mi hanno fatto spogliare. Mi hanno legato le mani dietro e mi hanno picchiato con il calcio dei fucili, pestandomi sulla schiena. Ricordo le ombre e un dolore fortissimo al polso, me lo stavano comprimendo, se avessero premuto un altro po’ mi avrebbero staccato la mano. Mi hanno sputato e urlato. Ero convinto di stare per morire, non so perché mi hanno risparmiato. Mi hanno anche interrogato, nome, cognome, volevano sapere perché fossi lì e dove ero il 7 Ottobre”.
“Ho visto colpire il convoglio”
Munther Abed è steso a terra, legato. Accanto a lui c’è un uomo di 55 anni insieme al figlio adolescente: stavano andando a pescare, ma sono stati fermati dall’Idf. Sono le 5.07 e all’orizzonte appaiono i lampeggianti del convoglio mandato dalla sala operativa a cercare Abed e i suoi compagni: è composto da un’ambulanza della Mezzaluna Rossa, una macchina dell’agenzia Unrwa dell’Onu, un’altra ambulanza e un mezzo anti-incendio della Difesa civile. I soldati dell’Idf si accovacciano e prendono la mira. Parlano ebraico, Abed non capisce cosa si stanno dicendo.
Ciò che poi accade è documentato dal drammatico filmato girato col telefono dal giovane paramedico Refaat Radwan. Abed vede tutto coi propri occhi. Una bufera di ferro investe i mezzi per almeno cinque minuti di fila, segno che gli appostati sono molti e molto armati. Pochi minuti dopo, prendono di mira un’altra ambulanza della Mezzaluna Rossa, la quinta, giunta ad Hashashin dalla direzione opposta a quella del convoglio.
L’audio inedito: “Mettigli la faccia al muro, legali”
Uno dei paramedici, nonostante l’attacco, riesce a chiamare la sala operativa e a dare l’allarme. Il telefono rimane in linea per le due ore successive, fino alle 7.10, e i volontari del centralino ascoltano quanto dicono, o meglio, urlano, i soldati israeliani. Le voci sono concitate ma chi era presente nella sala operativa assicura a Repubblica che le parole arrivavano “sufficientemente chiare”. Un volontario della Mezzaluna che conosce l’ebraico afferma di aver sentito uno dire a un commilitone “mettigli la faccia al muro”, “legali”, “perquisiscili”. Al plurale.
Questa parte della chiamata però si è persa perché la linea non aveva il recorder automatico. C’è invece un file registrato, che dura pochi minuti, in cui si sentono distintamente discutere di perquisizioni e ispezioni. Materiale che la Mezzaluna metterà a disposizione di un’eventuale commissione di inchiesta indipendente e internazionale, come chiede il presidente della Mezzaluna Younis Al-Khatib. Il quale ha raccolto anche i risultati delle autopsie dei quindici cadaveri, ritrovati interrati poco lontano dal luogo della strage. “Le prime risultanze mostrano che sono stati colpiti deliberatamente, i fori di proiettile sono nella parte alta del torace”.
Il disperso
C’è però un’altra testimonianza che può aiutare a comporre il pezzo mancante della storia: quella di Asaad Al-Nasasra, il paramedico disperso. Il 23 marzo è su una delle ambulanze del convoglio. Non muore nell’assalto, perché Abed lo incontra poco dopo, nella tarda mattinata. L’Idf a quell’ora ha già interrato i 15 cadaveri in una sorta di fossa comune (“per evitare che fossero mangiati dai cani randagi”, dirà il portavoce delle forze armate) e sotterrato i resti delle ambulanze con l’aiuto di un bulldozer.
Abed è bendato, nudo, con le mani legate, nel un posto dove viene portato anche Al-Nasasra. Pure lui bendato e in manette. I due riescono a comunicare, sussurrando. Abed – riferirà poi al New York Times – sostiene che Al-Nasasra in quel momento gli dice che dopo l’imboscata ha visto due colleghi vivi ma feriti, “uno molto gravemente”, e due che recitavano la Shahada, la preghiera islamica. Ma quando Abed prova a chiedere informazioni sulla sorte degli altri operatori umanitari a un soldato, questi, stando a quanto riferisce il paramedico, gli risponde con tono canzonatorio e in arabo: “I tuoi colleghi sono tutti andati!”.
Alle 4 del pomeriggio del 23 marzo Abed viene rilasciato. Dove sia Asaad al-Nasasra non lo sa. Potrebbe essere ancora in stato di arresto. O deceduto. Nella strage hanno perso la vita 8 paramedici della Mezzaluna Rossa, 6 volontari della Difesa civile e un dipendente dell’Unrwa.
Le versioni contraddittorie dell’Idf
All’inizio il portavoce dell’Idf aveva detto che i militari avevano sparato “perché i mezzi avanzavano in modo sospetto, senza fari e senza luci di emergenza”, cosa che il filmato di Radwan smentisce completamente. Aveva poi detto che nell’attacco erano stati uccisi nove miliziani di Hamas e Jihad islamica, fornendo anche il nome di tale Mohammad Amin Ibrahim Shubaki che avrebbe partecipato al pogrom del 7 Ottobre. Ma non c’è nessun Shubaki nella lista delle 15 vittime. L’Idf si è corretto di nuovo e adesso sostiene che “sei terroristi erano stati eliminati in quella zona ma prima dell’arrivo delle ambulanze”, e che i militari hanno sparato “perché si sentivano a rischio”.