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 2025  aprile 09 Mercoledì calendario

Intervista a Willem Dafoe

Magnifici maestri del teatro, da Eugenio Barba a Elizabeth LeCompte, Richard Schechner, Thomas Richards, collaboratore di Grotowski, e poi talenti di oggi come i registi Thomas Ostermeier, Milo Rau, Romeo Castellucci e gli emergenti di domani, affollano il programma del Festival di Teatro della Biennale di Venezia (dal 31 maggio al 15 giugno). «Sono soddisfatto, c’è quello che mi interessa, che da sempre è l’unico riferimento delle mie scelte», dice Willem Dafoe con un sorriso abbagliante e l’espressione un po’ ribalda alla Mick Jagger, a cui un po’ assomiglia. L’attore, una stella nella Walk of Fame, quattro nomination agli Oscar, oltre 150 film, dai più sfidanti (lo dice lui) del cinema indipendente a Lynch, Anderson, Herzog, Schrader, von Trier, Scorsese, fino a blockbuster come Spider-Man, alla Biennale veste per la prima volta i panni di direttore artistico.
Ci sta prendendo gusto?
«Mi piace, sto imparando e ho l’opportunità di tornare al teatro dove sono nato artisticamente e che, sono sicuro, tornerò a fare. Solo che c’è sempre un bel progetto cinematografico, e forse sono un po’ viziato».
Perché viziato?
«Sono nato attore nel ’77 nel Wooster Group, compagnia di punta dell’avanguardia americana di quegli anni. Il teatro in cui mi sono formato e che ho in mente non è quello delle commedie di Broadway, ma delle azioni, è l’attore che crea, con il suo corpo in scena. Theatre is Body – Body is Poetry, come dice il titolo del mio festival».
Cosa la spinse a 22 anni verso il teatro? Passione? Ribellione?
«Non direi. Ero un normale ragazzo americano della classe media, cresciuto ad Appleton, Wisconsin, che non è esattamente un posto dove immagini di fare l’attore. Avevo recitato un po’ a scuola, poi in una piccola compagnia del Midwest. Lì c’era una libreria e leggevo Grotowski, Bob Wilson, Richard Foreman. Decisi di andare a New York nel ’77 perché volevo vedere quello che avevo letto».
E come andò?
«New York era un posto difficile: molta criminalità, povertà. Vivevo a Downtown, con persone che non conoscevo e pochi soldi. Penso che questo mi abbia radicalizzato. L’idea di fare l’attore, diciamo così, tradizionale, andò in fumo. Frequentavo solo performance e loft. Il teatro non mi interessava per business, ma per creare azioni che facessero guardare il mondo in modo diverso».
In anni recenti ha lavorato con Bob Wilson, Romeo Castellucci, Trisha Brown: quell’idea sperimentale di teatro le è rimasta addosso?
«Farei anche una commedia, ma non ne trovo di interessanti. Però sì, è indubbio che la mia esperienza teatrale deve tutto al Wooster Group».
Alla regista del gruppo, Elizabeth LeCompte, andrà il Leone d’Oro 2025. I malevoli dicono che ha premiato la sua ex-moglie.
«Lo so, lo so. Ma Liz è un’artista che ha dato un’impronta importante al teatro contemporaneo. E continua a lavorare, a fare ricerca, con pochissimi supporti economici. È una “Maestra”».
E lei? Si considera un Maestro?
«Mi chiamano così al ristorante. Maestro è l’esperto del mestiere. Io ho un altro approccio. Non sono l’attore che recita con un metodo fisso. Ogni volta è come se avessi una meravigliosa amnesia, dimentico quello che so fare, cerco emozioni nuove. Gli attori devono essere umili, farsi trasparenti, non esibire se stessi, per annullarsi nella creazione e restare vivi, vigili».
Ha una disciplina personale?
«Pratico yoga, ogni giorno. Avere il corpo allenato ti libera, ti apre cuore e mente».
Alla Biennale sarà in scena con “No title”. Di cosa si tratta?
«Un ricordo di Richard Foreman, regista, autore tra i più importanti dell’avanguardia americana, morto a gennaio. L’anno scorso mi chiese di andare a trovarlo a New York per fare una registrazione insieme a casa sua. Era sulla sedia a rotelle, con una penna appesa al collo, e scriveva frasi su centinaia di schede che mescolò in un mazzo, le divise tra me e lui e a turno le leggevamo. Non c’era nessun filo tra quelle frasi, alcune avevano rimandi filosofici, altre erano solo pensieri stupidi. Ma cambiando ritmo di lettura e dalla casualità veniva fuori una conversazione dinamica o a volte molto comune. A Venezia lo rifarò con Simonetta Solder e alcuni momenti registrati con la voce di Richard. È solo un esperimento. Lo faremo un po’ in inglese, un po’ in italiano».
Da quanti anni vive in Italia con sua moglie, la regista Giada Colagrande?
«Ho da poco festeggiato il mio 20esimo anniversario di matrimonio, quindi sono 20, ma i primi anni ero sempre in giro a fare film e ecco perché parlo poco l’italiano. Ora ci vivo più che a New York, anche se i miei vicini a Roma quando mi vedono pensano che sia lì in vacanza. Non mi sento né totalmente americano né totalmente italiano».
Che pensa di Trump?
«Non voglio parlare di lui».
Parliamo di cinema: ha cinque film in uscita, a partire da The legend of Ochi e di Wes Anderson The Phoenician Scheme.
«Quello con Wes è un cammeo. Ci sono invece altri film più piccoli ma chissà quando li faranno uscire. Ora vado in Nepal per Tenzing il film di Jennifer Peedom sull’ascesa all’Everest nel 1953 di Hillary e Tenzing Norgay. Interpreto il capo spedizione John Hunt. La parte più pesante dell’arrampicata, sarà sul Mount Cook in Nuova Zelanda».
Il 22 luglio saranno 70 anni.
«Non voglio essere un cliché, non mi sento un ventenne. Però gli anni sono una questione di testa e io guardo ancora alle cose da fare. Quindi 70 o 90, che mi cambia?».