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 2025  aprile 09 Mercoledì calendario

Julian Lennon: "Io come mio papà cercavo pace e amore Alla fine li ho trovati scattando fotografie" "

La vita di Julian Lennon è fatta di contraddizioni. Con un padre «più famoso di Gesù» – così John Lennon definì i Beatles nel 1966 – che lo ha abbandonato da bambino, lasciandogli solo un cognome troppo ingombrante; con un’incessante urgenza di trovare il proprio posto e la propria identità nel mondo lontano dagli sguardi altrui, scegliendo, per farlo, di esporsi come artista; con un’importante attività di filantropia, portata avanti con le fondazioni e le borse di studio da lui istituite negli anni, e una nuova vita a Montecarlo. Ai trent’anni passati sui palchi come cantautore, Lennon, che ha compiuto ieri 62 anni, ha affiancato dal 2010 una nuova esperienza creativa dietro l’obiettivo della macchina fotografica. Da questi quindici anni filtrati da specchi e lenti sono nati Whispers, la grande retrospettiva ospitata a Venezia da Le Stanze della Fotografia e arrivata adesso a Milano da Still come Whispers Too, curate insieme a Sandrina Bonetti Rubelli; e Life’s Magic Moments, un prezioso libro fotografico edito da TeNeues. I momenti magici dell’esistenza che spalancano momenti di infinito, sono quelli ricercati dal fotografo nei suoi scatti, dai ritratti degli amici famosi ai paesaggi più remoti del globo terrestre. Sting, Bono, Courtney Love, Lana del Rey, Charlène di Monaco e Cuba, l’Etiopia, il Vietnam, i Cogui della Colombia. Mentre li racconta, ripete le parole «amore» e «respiro» come se fossero un mantra. E la stanza trema quando usa la parola «papà», e non «padre», per indicare l’uomo che più di tutti ha avuto un impatto tanto immaginifico quanto drammatico nella sua storia.
I suoi ritratti sono tutti spontanei. Come si sente a dover gestire tanta intimità?
«Molti degli scatti sembrano ravvicinati, ma in realtà sono stati fatti da una certa distanza e poi modificati con cura. Alcuni protagonisti sono sul palco, altri in una stanza molto piccola mentre vengono intervistati. Non sono ritratti intimi di per sé, ma sono stati scattati in un momento in cui i soggetti avevano un attimo per concentrarsi e respirare. Ho colto sguardi di pace o contemplazione, solenni. Essere presente in quei momenti è ciò che fa la differenza. Sono stato anche io, come loro, in posa di fronte a una macchina fotografica, e non mi è mai piaciuto. So cosa si prova, quindi non voglio disturbarli o intralciarli. Voglio solo provare a catturare un momento che sia significativo, che sia speciale, e poi andare avanti».
Ha vissuto una vita sotto i riflettori, anche quando, forse, non avrebbe voluto. Come è arrivato dall’altra parte dell’obiettivo?
«Papà se n’è andato di casa quando avevo quattro o cinque anni. Io non ero nel suo mondo in nessun modo. Non l’ho vissuto finché non mi sono veramente connesso con lui più avanti. Ho fatto musica per trent’anni, ed è stato divertente, fantastico, felice e deprimente. Il percorso di un artista, indipendentemente dal mezzo creativo, è sempre una lotta, soprattutto dal punto di vista psicologico: si ha a che fare con gli alti e i bassi, e con il rifiuto. Ecco perché io, non solo come persona, ma come artista, cerco sempre pace e amore. E li ho trovati scattando fotografie tra le nuvole per divertimento. La cosa si è poi evoluta in altre opportunità di scattare in circostanze diverse, che trovavo interessanti o curiose. Mi sento ancora a disagio a scattare foto di strada, alle persone, perché conosco quella sensazione e non mi piace. Mi piace camminare e andare a fare la spesa, mi piace andare al mercato. Non voglio essere disturbato. Certo, essere avvicinati da chi vuole esprimere il suo apprezzamento per la mia musica o il mio lavoro è una cosa diversa, è un diverso livello di empatia e rispetto, che amo molto».
Il suo cognome è un dono o una maledizione?
«Per lo più una maledizione. Da sempre, anche se ultimamente ho imparato a disinteressarmene. Mi ricordo un momento davvero imbarazzante, quando andai in una nuova scuola, da ragazzino. Vivevamo a Londra e ci siamo trasferiti a Liverpool. Era una classica vecchia scuola inglese, e il preside per presentarmi, disse: “C’è un nuovo studente, Julian Lennon, il figlio di John Lennon dei Beatles”. Come gli è venuto in mente di dire una cosa del genere? Come avrei potuto riconoscere gli amici sinceri, dopo quella frase? Ho dovuto imparare subito a mie spese che certe volte le persone sono insensibili e per nulla empatiche. Fortunatamente, ora sento di essere abbastanza forte per poter affrontare queste situazioni, anche se ci sono circostante in cui ancora mi ferisce».
Come ha fatto?
«Imparando a pensarmi come un essere umano che cerca di essere il più creativo possibile. Cercando di fare il miglior lavoro possibile, e di essere il più positivo possibile nel processo. Non voglio indottrinare le persone, ma solo mostrare immagini e dati, con cui si possano formare opinioni proprie. In parte, il mio libro tratta anche di questo: le persone empatiche potranno vedere delle fotografie che potrebbero aiutarle a decidere di fare qualcosa riguardo a certe situazioni. Spesso mi trovo ancora a dover spiegare cosa faccio nella vita, ma ho avuto la fortuna di fare musica, fotografare, scrivere libri per bambini, realizzare un documentario con l’artista Ai Weiwei. Tutte cose che per me sono state importanti a livello personale: per crescere e per sentire che c’è uno scopo nella vita. Dei premi o dei riconoscimenti non mi importa molto, mi interessa lavorare e poter mostrare il mio lavoro. È una cosa da imparare».
Ora che le democrazie occidentali stanno cadendo, quale pensa sia il compito di una persona pubblica o un artista?
«Penso che si dovrebbe evidenziare il bene che si sta facendo. Cercare le crepe nei muri e nel pavimento e rattopparle al meglio con tutto l’amore e la speranza possibili. Io cerco di farlo con la White Feather Foundation e tutte le altre iniziative. Non abbiamo il potere che hanno i politici e che è veicolato dal denaro. Possiamo solo crederci, essere forti e tenerci per mano. Non uso il termine “combattere”, perché per me è una parola aggressiva. Ma penso che sicuramente ci si debba unire per il miglioramento e il beneficio di tutti».
Resistere.
«Ogni impero cade, lo insegna la storia. Il nostro sta cadendo ora. Penso che sia molto interessante che questo crollo stia facendo sì che tutti si guardino dentro per capire in cosa credono e dove si trovano veramente. E, anche se è orribile, molte persone, me compreso, pensano che da queste ceneri risorgerà una fenice. Credo che ci siano tutte le possibilità di avere un mondo migliore dopo lo scenario estremo che stiamo attraversando in questo momento. È un’esperienza educativa anche questa».