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 2025  aprile 09 Mercoledì calendario

Intervista ad Alessandro Piperno

Lo scrittore Alessandro Piperno, 53 anni, romano, fuma la pipa nel suo loden verde fuori dalle Ogr di Torino dopo la presentazione del programma del prossimo Salone del libro: «Questa è una città centrale per me. Mia moglie è torinese e il mio maestro Enrico Guaraldo lo era. Da francesista la trovo la città più francese d’Italia. E poi provo uno straordinario affetto e afflato per i libri, i modi, la straordinaria cultura vissuta in modo apparentemente frivolo di Fruttero e Lucentini, che di Torino hanno dato un’illustrazione unica. Tra l’altro il primo Meridiano Mondadori uscito sotto la mia direzione della collana, una specie di nemesi, è stato quello dedicato a loro da Domenico Scarpa».
Lei è uno dei curatori confermati dalla direttrice editoriale del Salone Annalena Benini, cosa si aspetta dall’edizione che inizierà il 15 maggio?
«Credo che Benini stia dando prova di una straordinaria energia e di una grande freschezza di orizzonti. Non so bene da cosa si misuri un Salone: c’è un dato prettamente numerico e da questo punto di vista mi pare che l’anno scorso sia stato un successo, e poi c’è anche la capacità di organizzare una squadra di curatori come una redazione per approfondire la conoscenza di diversi settori culturali».
La sua sezione Romanzo come proseguirà?
«L’anno scorso abbiamo fatto un discorso generale sul modo speciale di leggere degli scrittori. Quest’anno vorrei andare più in profondità sulle loro passioni letterarie, perché dicono molto di un autore. Quello che si trova in un romanzo è allo stesso tempo ciò che si vorrebbe essere e non si sarà mai. Oppure una cartina di tornasole con cui confrontarsi. Per me un libro è anche un luogo di riposo e di letizia. Ci sono romanzieri a cui torno solo per stare dentro al loro mondo».
Come ha scelto i suoi ospiti della sezione Romanzo?
«Non c’è criterio se non stima e amicizia. Jhumpa Lahiri la conosco da molti anni ed è interessante che abbia proposto uno scrittore come Thomas Hardy con Jude l’oscuro. Paolo Nori mi ha sempre interessato per la sua devozione a Dostoevskij con Delitto e castigo. Antonio Franchini è uno scrittore e editore, che mi ha scoperto e fatto vincere lo Strega. Fu lui a chiamarmi quando avevo 30 anni per pubblicarmi Con le peggiori intenzioni».
Come la scoprì?
«Da giovane universitario collaboravo con la rivista Nuovi argomenti diretta da Enzo Siciliano, tramite lui mandai il libro alla Mondadori e Franchini se ne interessò. Già all’epoca lo ammiravo come autore di Cronaca della fine e L’abusivo e da leccaculo glielo dissi, ma lui mi fece capire che non dovevamo parlare di quello. Mi piace che vent’anni dopo il cerchio si chiuda. Tra l’altro lui è un editore mainstream, ma i suoi gusti sono sempre stati sofisticati e bizzarri: non a caso ha scelto Michel Tournier con Il re degli ontani».
Lei ha invitato questi autori a parlare del loro romanzo del cuore, ma il suo qual è?
«È nota la mia passione proustiana, ma se dovessi dire il romanzo che amo di più, che ho letto maggiormente, a cui torno spesso e che consiglio è Anna Karenina: il più bel libro mai scritto e per varie ragioni. Tolstoj con Guerra e pace ci ha lasciato un romanzo epico straordinario, ma con qualche incertezza qua e là nella costruzione. Con Anna Karenina invece ha composto una sinfonia mozartiana, a cominciare dall’introduzione delle tre coppie di personaggi, precedendo Joyce e Woolf sul flusso di coscienza nelle pagine prima del suicidio della protagonista. Un libro tragico, che inizia come una commedia hollywoodiana. Molto ironico che cominci come una storia di corna in cui a risolvere la controversia viene chiamata la più grande adultera della letteratura».
Come si trova il coraggio di scrivere dopo aver letto classici del genere?
«C’è chi fa film dopo Quei bravi ragazzi o Quarto potere. Basta non avere un’idea di questo lavoro troppo antagonista o agonista. Personalmente non scrivo per superare Tolstoj, né mi interessa che lui mi sovrasti. Se è per questo tutta la storia della letteratura universale ci sovrasta. Da ragazzo sentivo la pressione, mentre oggi vedo l’opportunità di farmi ispirare da tanta bellezza e diventare più creativo. Non sono cattolico, ma credo che ognuno di noi debba far fruttare i propri talenti come può. A un certo punto della carriera è giusto disinteressarsi di chi ci ha preceduto e del contesto. Guardo con sospetto agli autori che, ancora alla mia età, vivono in perpetua competizione».
Lei non è competitivo?
«Lo sono moderatamente, per esempio sulle questioni calcistiche. Nel mio mestiere ho smesso e non per magnanimità, ma per sopravvivenza. A me è andata bene, però non c’è niente di peggio che vivere di risentimento e invidia».
La cultura aiuta in questo?
«Lei sopravvaluta la cultura. Come dice Woody Allen, gli intellettuali sono la prova che puoi essere coltissimo e non afferrare la realtà oggettiva. Ho conosciuto molti eruditi animati da forti risentimenti».
Neanche la cultura classica o umanista può aiutare?
«No, credo sia più questione di temperamento e di saggezza. Il temperamento dipende da se uno è rosicone o no. La saggezza credo che arrivi con l’età e porti a comprendere come l’invidia sia un problema solo per chi la prova e non per chi la riceve. Un sentimento da contrastare con l’ironia e con l’apprezzamento per ciò che si ha. Nel mio caso poi c’è un quasi assoluto disinteresse per la mondanità letteraria e un forte interesse per ciò di cui scrivo».
Il Salone del libro è la sua attività più mondana?
«Direi di sì, un appuntamento importante per chi fa il mio lavoro e un’occasione per incontrare i lettori. Trovo anche di grande eleganza la regola per cui noi curatori non possiamo presentare i nostri libri».
E lei sta per pubblicare Ogni maledetta mattina. Cinque lezioni sul vizio di scrivere (Mondadori). Ne vuole parlare a noi?
«Racconto cinque moventi per scrivere alla mattina e non alla notte come i veri grandi: ambizione (o vanità) come nei diari di Woolf e Cheever in cui si lamentano di non ricevere lodi sufficienti; odio come Flaubert e Celine che scrivevano sdegnati, e anche a me è capitato; responsabilità come Tolstoj o Sartre, che erano “engagé”, o testimoni come Primo Levi; piacere come Austen, Dickens e Stendhal che intrattenevano sé stessi e creavano forme eleganti, la categoria con cui più mi identifico. E poi c’è un piacere, e qui c’è sempre Flaubert di mezzo, che è talmente ossessivo da diventare tormento. L’ultimo movente è la conoscenza e riguarda i veri grandi come Dante, Shakespeare, Proust e Kafka, che danno la sensazione di scrivere per cercare qualcosa, che non trovano mai, ma la loro grandezza sta nel porre lo stesso certe domande. Ovviamente tutti questi moventi spesso coesistono e la mia è solo una tassonomia arbitraria».
Perché scrive alla mattina?
«Mi verrebbe da dire perché sono un mediocre, in realtà è solo questione di metabolismo. Mi alzo alle 4,30, scrivo dalle 5,30 alle 11 e vado a letto verso le 23, anche se mia moglie sostiene che sono un impostore, cioè che dico di essere insonne solo per tirarmela mentre in realtà recupero attraverso sonnellini durante il giorno e abbiocchi davanti alla tv».
E ha ragione sua moglie?
«Ammetto di schiacciare qualche pisolino».

Quanto ci mette a scrivere un romanzo?
«L’ultimo, Aria di famiglia, l’ho scritto in 3 anni, ma erano 400 pagine. Prima la mia media era di 4-5 anni, mentre ora sono più veloce: da ragazzo sentivo i mostri sacri che mi soffiavano sul collo, oggi scrivo con enorme felicità tanto che sto lavorando a un nuovo romanzo e non mi fermo più».
Qual è la domanda che si pone quando scrive?
«A cosa serve vivere? E avere relazioni con gli altri? Ne vale davvero la pena? La letteratura non dà risposte, ma pone domande in modo elegante, toccante e attraverso racconti dettagliati. Gli scrittori che hanno la forza di porre questi interrogativi ed elevarli a sistema sono pochi e sono quelli a cui tornare volentieri».