Perfide Interviste, 8 aprile 2025
Fabrizio Roncone, il monaco di via Soferino
Quando la mattina leggo il Corriere della Sera, tra uno sbadiglio e l’altro, la penna corrosiva di Fabrizio Roncone balza subito agli occhi. Così, sfogliando la rosa di nomi che avrei voluto sotto i miei riflettori, da mesi il suo nome mi frullava nella mente.
Dopo aver stanato Aldo Cazzullo, pochi altri, dalle parti di via Solferino, hanno stuzzicato la mia curiosità. Chi altro, tra gli equilibristi del fu Corrierone, ci avrebbe regalato qualche aneddoto sarcastico, qualche puntura di spillo o episodi esilaranti della vita pubblica italiana? La scelta, naturalmente, è stata presto fatta.
Roncone, da anni, e come pochi altri, conosce intrighi, pugnalate e trasformismi che il Palazzo – ahinoi! – ci regala quotidianamente. Leggendo i suoi articoli me lo sono immaginato sempre in questo modo: silente e felpato nel suo andirivieni alla buvette, occhialini tondi come fossero laser, moleskine nera e una penna a registrare e auscultare tutto quello che succede nelle segrete del nostro Parlamento. Inoltre, nelle sue ripetute fughe dalla noia romana, divertenti e ruvidi sono i suoi ritratti, così come i reportages: clamorose furono, ad esempio, per un giornale borghese e democristiano come il Corsera, le due paginone che il “monaco tibetano” scrisse sul villaggio naturista di Cap d’Adge.
E siccome fare il giornalista, per dirla con Biagi, è sempre meglio che lavorare, Roncone non si fa mancare nulla: camaleontico, smessi i panni del cronista, sceglie il noir per raccontare quel gran troiaio che è Roma, nelle vesti di Marco Paraldi, ex giornalista vinaio.
Mi direte: perché chiamarlo “monaco tibetano”? Ebbene: Roncone ha la postura, l’atteggiamento, l’integrità, oltreché l’ovvia e fiera pelata di un asceta.
Ci siamo incontrati non a casa sua: saremmo stati travolti dall’euforia e dal caos di Giulia Fiore… eh sì, la penna del Corriere, dopo anni di singletudine e scorribande, è anche papà, ormai.
Pertanto, considerato tutto quello che avevo da chiedergli, gli propongo un rendez-vous in un bar nel centro di Roma. Arriva in anticipo. È tutto intabarrato, lo sguardo sornione, attento e controllante. Misura le parole, evita la polemica: essere giornalisti del più importante quotidiano italiano significa anche questo… ma sono sicuro che il suo inchiostro sarà – vivaddio! – sempre al curaro.
Fabrizio Roncone, romano, sfegatato e sfigato, ma le sue origini sono meridionali: dico bene?
In parte, sì. Perché se è vero che sia io che i miei genitori siamo nati e cresciuti a Roma, i miei nonni, no: quelli materni erano originari della Ciociaria, mentre quelli paterni erano del napoletano. Un tratto di meridionalità c’è, quindi, ed è anche piuttosto forte.
Da anni vivo a Roma, e ciò che mi ha più colpito di questa città sono la cialtroneria e il cinismo: lei è più cinico o cialtrone?
Ma che domanda è? Vorrei trovare qualcuno che si definisca cialtrone… Non so, magari sono un po’ cinico, il cinismo, del resto, fa parte del dna dei romani. Una popolazione abituata ad aspettare il bus sotto al Colosseo, che ha visto arrivare gli americani sull’Appia Antica mentre la colonna della Wehrmacht in ritirata era ancora sulla via Cassia, i romani non si stupiscono mai di nulla. Avrà notato che, il giorno dopo l’elezione del nuovo papa, regolarmente spunta qualcuno che racconta: è una brava persona, me lo ricordo quando la mattina passava al bar e prendevamo il caffè insieme. Il romano ha una consuetudine con la grande vita, con la Storia, e questo ha acuito…
… Cosa, il disincanto?
Sì, esatto. Una patologica forma di disincanto che, a volte, erroneamente, viene definito cinismo…
Le è mai capitato di essere cialtrone?
No. Anche perché ho un altissimo rispetto per me stesso: perciò sono rigoroso, mi giudico con severità, tengo molto alla forma dei gesti, delle parole.
Per gli uomini, la perdita di capelli è sempre stata uno choc: anche per lei è stato così? Non le dà fastidio essere pelato?
No, assolutamente! Non me n’è mai importato nulla. Anzi, le dico di più: di capelli ne avrei pure, ma mi crescono, come a milioni di uomini, solo sulle tempie. Comunque, da quasi un anno, dopo aver mollato il mio barbiere di fiducia, uso una macchinetta fantastica: rado tutto in pochissimi minuti ed evito quella imbarazzante peluria laterale che mi trasformerebbe in una terribile maschera dell’orrore.
Quali sono stati i suoi inizi giornalistici? Anche lei, prima di diventare borghese tutto d’un pezzo, in doppiopetto come qualcuno malignamente ha scritto, bazzicava redazioni che credevano, stupidamente, alla rivoluzione?
In realtà, il doppiopetto non l’ho mai avuto, e non mi piace neanche… Però, se vuole, le racconto un episodio che ha cambiato, e per sempre, la mia vita… Allora: era una sera di gennaio del 1979, se non ricordo male. A casa dei miei genitori c’era una cena: a un tratto, sentiamo una decina di colpi di arma da fuoco e poi un prolungato stridore di gomme, provenire dalla strada. Ci affacciamo e io, che avevo 16 anni, decido di scendere. Nel volgere di pochi minuti, con lampeggianti e sirene, piombano una decina di auto della polizia: alcune si infilano nel garage della strada, altre ne bloccano l’ingresso. È successo che un commando aveva rapito Carlo Teichner, rampollo dell’omonima facoltosa famiglia di commercianti romani. Dopo un po’ che sto lì a curiosare, diciamo verso mezzanotte, vedo arrivare una strana compagnia di uomini. Gente con l’impermeabile e il bavero alzato, la sigaretta fumante fra le labbra, la battuta pronta, la barba lunga. Erano i cronisti di nera. Ad un certo punto, un agente annuncia che la Scientifica ha finito di fare i rilievi del caso e che è possibile, per la stampa, scendere in garage. Ero affascinato da tutto, mi avvio con loro, ma un poliziotto mi blocca: “Il ragazzo, no”. Allora uno di quei giornalisti, Andrea Garibaldi, che lavorava al Messaggero, si gira e dice: “Lui, però, sta con noi”. Quando risalii la rampa, avevo deciso: questo è il lavoro che voglio fare. Il giorno dopo, cominciai subito a cercare collaborazioni con i giornali locali. I primi articoli, pensi, li ho scritti per Autosprint… Poi, dopo aver terminato gli studi liceali, entrai nella leggendaria redazione di Paese Sera…
Anche lei credeva alle minchiate del Pci?
Non sia offensivo con quel grandioso partito. Comunque, no, non ho mai avuto la tessera del Pci. Al liceo, nella mia stagione, c’era una forte fascinazione per l’Autonomia operaia… Tenga poi conto che Paese Sera era un posto alternativo, era un po’ il cugino ribelle dell’Unità, un luogo abbastanza sperimentale, per irregolari di sinistra, frequentato anche solo di passaggio, come accadde a Maurizio Costanzo, a Dario Argento… era il giornale del pomeriggio, delle edizioni straordinarie. Per me e per altre decine di colleghi è stata una strepitosa scuola di giornalismo.
Come mai voi giornalisti, anziché scovare notizie e mettere i potenti spalle al muro, vi mettete a scrivere romanzi, saggi, che spesso nessuno legge? È frustrazione, la vostra?
Questa domanda non se l’è preparata tanto bene…
E perché? È la verità… Gli scaffali delle librerie sono pieni di vostri libri, pamphlet e instant book…
Tutto mi si può dire, ma teorizzare che io sia tenero con i politici, francamente, mi sembra azzardato.
Sta di fatto che sfornate libri come fosse pane da mettere a tavola… O no?
Sono due mestieri diversi, ma abbastanza affini. Io, per quanto mi riguarda, ho resistito per parecchi anni. Poi la Rizzoli, dopo avermi a lungo corteggiato per farmi scrivere un saggio, si spazientì, e mi chiesero: allora lei non pubblicherà mai un libro? Io risposi che scrivere saggi mi annoiava, a fatica leggevo quelli degli altri. Magari, un giorno, chissà – dissi – scriverò un giallo. Loro, molto generosamente, una settimana dopo mi fecero firmare il primo contratto. È così che, quasi per divertimento, ho cominciato. Nei prossimi mesi, uscirò con la quarta avventura di Paraldi, il personaggio della serie noir che, adesso, pubblico con Marsilio…
Lei usa i libri noir per poter scrivere e pubblicare quello che il Corriere della Sera censurerebbe, giusto?
Le cose stanno così: il giornale mi offre praterie di libertà, e da sempre. A mia memoria, non c’è un solo direttore che mi abbia chiesto di non scrivere qualcosa di scomodo. Tutti sanno che io scrivo quello che vedo e che sento. Quando, però, vengo a sapere delle cose, sicuramente vere, che tuttavia non riuscirei a dimostrare con delle prove scritte, o audio, allora sono costretto a fermarmi. L’escamotage del noir mi permette perciò di raccontare storie e personaggi, sicuramente corrispondenti alla realtà, al vero, senza però temere la denuncia per diffamazione.
In un suo libro, scrive che Roma è un troiaio a cielo aperto: cosa voleva dire?
È un’affermazione del mio personaggio letterario, il vinaio-cronista Paraldi. Volevo sintetizzare, un po’ brutalmente, il concetto che Roma è un grandissimo frullato dove tutto è orizzontale, sovrapponile, spesso indistinguibile…
In che senso? Si spieghi meglio…
Cominciamo con il dire che a Roma il potere lo vedi, lo tocchi, con i potenti ci parli. Puoi tranquillamente arrivare a una festa e incontrare contemporaneamente un ministro e, a pochissimi centimetri dall’autorità, la commessa che gli chiede una raccomandazione per il fratello disoccupato. È il fascino di Roma, città trasversale, aperta e accogliente, e anche il suo mistero: perché qui tutto s’intreccia, il bene e il male si sovrappongono fino a diventare, talvolta, inafferrabili. Ricordo che quando la Lega riuscì a portare i primi parlamentari nella Capitale, erano convinti di scendere nella Roma Ladrona, città inaffidabile, pericolosa, tentatrice, e perciò arrivarono tutti molto guardinghi: bene, dopo nemmeno un mese, li vedevi nei locali notturni, che all’epoca ancora c’erano, nei salotti, che ancora contavano qualcosa, o nei ristoranti a mangiare l’amatriciana con le cravatte verdi sporche di sugo. Roma, in pochissimo tempo, li aveva completamente risucchiati… come accade a tutti, del resto…
La sua risposta mi convince in parte: Roma è una città respingente, accoglie la plebe e non la fa crescere, le carriere si decidono nei circoli esclusivi, nelle stanze segrete dei grand commis o, più beceramente, a ristorante… Mi sbaglio?
Questa storia che le carriere si decidano nei circoli esclusivi, o in qualche stanza segreta, è stata vera, forse, in passato. Oggi il nuovo potere ha spazzato via le vecchie liturgie. Se hai voglia di far carriera è sufficiente che dimostri di esser stato, magari anche solo un pomeriggio, nella sezione di Colle Oppio, al cameratesco tempo che fu. Poi magari sì, ne parli al ristorante: perché a Roma tutto si decide sempre mangiando e bevendo.
E il giornalismo italiano, sempre più modesto, non le sembra anch’esso un troiaio, un “marchettificio”?
Sul fatto che sia sempre più modesto, sono d’accordo. Lo scadimento qualitativo della categoria è, purtroppo, evidente. Quanto alle marchette: credo ci siano sempre state. Basta ricordare le stagioni in cui i socialisti o i democristiani dettavano legge ovunque, oppure l’epopea berlusconiana… È sempre stato frequente, in questo Paese, vedere i giornalisti inchinarsi dinanzi al potente di turno…
Le è mai capitato di scrivere una marchetta per amicizia o convenienza? Ci dica la verità, Roncone!
No, anche perché, e a via Solferino lo sanno, non scrivo di politici – ma saranno un paio al massimo – che hanno, con me, rapporti di amicizia…
E quando un collega o un amico giornalista le chiede una recensione, non gliela fa una marchetta?
Finora, pur avendo avuto molte richieste, ne ho fatte davvero poche, di recensioni… due, forse tre. Può controllare, se vuole.
Ricorda quali sono stati, negli anni, tra i vari e tanti che via Solferino ha conosciuto, gli editori più soffocanti e attenti a quello che scrivevate?
Mi faccia pensare… Beh, ho alcuni ricordi piacevoli della stagione Romiti… Un’estate, il giornalaio di Ponza mi raccontò che lui era capitato sull’isola qualche giorno prima di me: e, una mattina dopo l’altra, s’era accorto che il Corriere della Sera, rispetto agli altri giornali, arrivava sempre con un’ora di ritardo, con l’aliscafo delle 10. Obbligando quindi tutti quelli che dovevano poi uscire in barca a optare per l’acquisto degli altri quotidiani. Tipo al terzo giorno, Romiti s’infuriò: e, proprio davanti all’edicola, urlando chiamò Milano, invitando chi si occupava delle spedizioni a fare in modo che il giornale arrivasse insieme agli altri, anzi ben prima degli altri… Un’altra volta, eravamo a Washington, subito dopo l’11 settembre, per un evento in cui avrebbe dovuto fare la sua ricomparsa il Presidente Bush, sparito dal giorno dell’attentato. Arrivo alla reception dell’albergo, e trovo il mio direttore dell’epoca, De Bortoli, che sta parlando, appunto, con Romiti. De Bortoli, gentilmente, me lo presenta… Dopo qualche convenevole, mi sposto per procedere con la registrazione, consegno il passaporto e… nel mentre, sento Romiti che fa a De Bortoli: “No, scusa direttore, ma quanti inviati del Corriere hai mandato? Non saranno un po’ troppi? Guarda che questi ci costano, eh”. Ecco, avere un editore attento, che vigila, è tutta salute per un giornale. Le ho fatto questi esempi perché, poi, abbiamo avuto una lunga stagione in cui la proprietà è stata invece, diciamo così, piuttosto distratta…
Tutto bello e giusto quello che lei dice, ma io voglio sapere altro, ovverosia se gli editori del Corriere vi rompevano il cazzo…!
Quando sono tanti, ognuno pensa al proprio orticello. Ma nessuno ha mai osato chiamarmi per lagnarsi o, peggio, per impormi il taglio di un pezzo… Per fortuna, poi, è comunque arrivato il presidente Urbano Cairo.
Eccolo, il peana… È vero che è taccagno?
Guardi: io, da dipendente, so che Cairo, dopo aver trovato il Corriere in una situazione contabile drammatica, con i conti in rosso, un rosso profondo, perché eravamo davvero sull’orlo del precipizio, adesso ha praticamente risanato e addirittura rilanciato l’azienda, e anche in pochissimo tempo. Non solo: ha persino riacquistato la sede di via Solferino. Certo ha eliminato alcune abitudini di stampo ottocentesco… consideri che quando sono arrivato io, al Corriere, la sola sede di Roma aveva in carico otto autisti, e c’era un ufficio, definito dei “servizi generali”, i cui impiegati – se eri fuori, mettiamo a Palermo, per un’intervista – provvedevano anche a pagarti le bollette di casa. Insomma, era un mondo antico, ancora molto vicino a quello di Barzini che arrivava alle porte di Pechino su di un cavallo. L’avvento di Cairo, per la sopravvivenza e il futuro dell’azienda, è stato decisivo. Ha razionalizzato logiche, costi, e comunque basta sfogliare il giornale per accorgersi che noi inviati continuiamo lo stesso a coprire i grandi eventi come prima… Insomma, a me sembra che il bilancio sia ottimo.
Capirà pure di numeri e di soldi, ma è così sicuro che, a livello editoriale, ha fatto le scelte migliori per il Corriere?
Sì. Perché, ancora oggi, in una scena assai complicata per l’industria dell’informazione, il Corriere è ancora il Corriere, ed è, di gran lunga, ma proprio di gran lunga, per copie e abbonamenti, il primo giornale italiano.
Da quanto tempo non ha un aumento in busta paga?
Da ventuno anni.
Appena può, scappa dalla politica, e dai suoi torbidi giochi, e s’inventa nientepopodimeno cronista di calcio e dintorni, raccontando la nazionale. Se Masneri prova a scimmiottare, da anni, Arbasino, lei Gianni Brera?
Intanto il mio amico Michele non lo scimmiotta affatto, Arbasino, perché Michele è molto più moderno, nella scrittura, di Arbasino. Per quanto mi riguarda, il calcio l’ho sempre seguito, sin da quando ero, appena ventenne, a Paese Sera.
Come mai sente la necessità di questa fuga?
Non è una fuga, ma solo puro divertimento. Al Corriere, negli ultimi 27 anni, mi hanno fatto scrivere di tutto, dalle guerre, ai terremoti, alla politica. Ma io solo di una cosa sono esperto: di calcio. Insieme ad altri 58 milioni di italiani, ovviamente.
Il 25 maggio del 2022 la Roma di Mourinho vince una ridicola coppetta in Conference League. Cosa significò, per Roma e i tifosi romanisti, quella vittoria: la rivalsa degli eterni perdenti? Lei era lì, inviato per il Corriere, se non erro.
Come ben saprà, il calcio, a Roma, è un fenomeno di stampo religioso. Il tifoso romanista sente di appartenere a una comunità, integralista, fanatica, animata da una struggente passione, con cui ha ridefinito il rapporto d’amore che di solito si stabilisce tra una squadra e il suo pubblico. E poiché, oltretutto, come sappiamo, la Roma vince molto ma molto di rado, anche la conquista di una piccola coppa scatena manifestazioni di euforia del tutto incomprensibili per chi vive fuori dal Grande raccordo anulare. C’è mai stato, all’Olimpico, quando gioca la Roma? Le suggerisco di andare, perché quel che accade in quello stadio è uno spettacolo abbastanza straordinario, che va maneggiato con grande cura e rispetto.
Le è mai capitato di avere nausea della sua professione, per tutto quello che vede e sente o per tutto quello che, magari, non può scrivere?
No, mai. Rifarei tutto da capo. Ancor oggi, penso che il giornalismo sia il mestiere più bello del mondo. Ogni volta che scrivo un articolo, è come se fosse, per me, la prima volta. Mi accorgo, però, che l’entusiasmo tra i giovani è sempre più tenue, così come la mancanza di divertimento. Certo è possibile che su questa atmosfera grigiastra, piena d’un miscuglio di tristezza, amarezza e rassegnazione, possa incidere pesantemente la questione salariale. Detto che, da quando frequento le redazioni, qualsiasi giornalista pensa di guadagnare meno o molto meno di quanto meriterebbe, nei giornali italiani il tema della retribuzione è diventato un tema gigantesco, e drammatico. Ci sono collaboratori, giovani e anche meno giovani, che per un articolo vengono pagati pochi euro. E anche chi riesce ad essere miracolosamente assunto, guadagna cifre modeste. Gli editori devono capire che un giornalista produce cultura e deve essere messo nelle condizioni economiche di poter andare al cinema, a teatro, di pagarsi l’abbonamento a Netflix, di visitare un museo, di comprare libri. Sai, invece, che succede nelle redazioni italiane? Quelli ricchi di famiglia, li vedi belli e sorridenti. Gli altri, spesso, parlano da soli. Perché tra affitti, mutui, spese varie per i figli, stanno scivolando nel proletariato. E il rischio tremendo che corre la categoria, è che, per arrivare a fine mese, qualcuno inizi ad arrangiarsi, avvii collaborazioni sulfuree…
Si infastidisce, come spesso avviene nelle redazioni, quando le cambiano il titolo, o le riducono lo spazio che pensa di meritare?
Devo riconoscere che, di solito, mi viene accordato lo spazio di cui ho bisogno. Quanto ai titoli, invece, non sono io a farli.
Enzo Bettiza disse che le redazioni dei giornali sono un luogo infernale: anche per lei è così?
Mah, io ho sempre pensato alla redazione come a un Luna Park. Ho ancora netta la sensazione della prima volta che misi piede nello stanzone dello Sport, a Paese Sera: la tivù accesa con Cyndi Lauper che cantava a palla “Girls Just Want to Have Fun”, profumo di sigaro toscano, una bottiglia di whisky mezza vuota su una scrivania, uno che stava partendo per Londra, un altro che stava per puntare l’intero stipendio su un cavallo a Tor di Valle… Poi, certo, ogni redazione ha la sua atmosfera: all’Unità erano tutti già più seriosi… quanto al Corriere: Afeltra, in un suo magnifico libro, racconta che a via Solferino, negli anni Sessanta, era sconsigliato uscire dalla propria stanza senza aver prima indossato la giacca…
Qual è stato il direttore peggiore che ha avuto? Non faccia il codardo nella sua risposta…
Devo deluderla. Ma con i direttori sono sempre stato piuttosto fortunato. Ferruccio De Bortoli fu quello che, quasi trent’anni fa, mi assunse, facendomi entrare nel leggendario palazzo del Corriere e poi utilizzandomi subito come inviato. Stefano Folli, un vero gentiluomo del giornalismo, fu poi quello che mi premiò, dandomi proprio la qualifica di “inviato speciale”. Con Mieli, uomo di cultura e intelligenza rare, sono stati anni francamente elettrici e divertenti. Quanto a Fontana, beh, rischio d’essere un po’ di parte, perché ci conosciamo da quarant’anni… ma è chiaro che guida la portaerei del Corriere con straordinaria maestria.
Pensa occorra una stoffa speciale per dirigere e governare tante teste di cazzo?
Ecco, appunto: lei ha idea di quanto sia faticoso dirigere un giornale? Quello che vuole occuparsi di esteri, ma parla inglese come Alberto Sordi nel film “Un americano a Roma”, quell’altro che non azzecca un titolo manco per sbaglio e bisogna rifarglieli sempre, quello che pensa d’essere Hemingway e, con delicatezza, devi spiegargli che l’attacco del pezzo è incomprensibile…
Ricordo, tempo fa, un suo reportage sullo scambismo e tanto altro a Cap d’Adge e, ancor prima, un suo articolo sul naturismo di Capocotta: come mai ha questa fissazione?
Non è una fissazione. È un mondo che conosco dalle origini. Quando lavoravo all’Unità, parliamo del 1996, credo, il direttore dell’epoca Walter Veltroni, con grande fiuto, mi chiese di indagare sul nascente fenomeno dello scambismo, e su alcune feste che, si diceva, fossero organizzate in una villa dei Castelli Romani. Era tutto molto carbonaro, e riuscire a farmi invitare in quella villa fu davvero molto complicato… Ma quando uscii alle 5 del mattino… diciamo che ero abbastanza sconcertato e pensai: ho visto cose che voi umani… Lo raccontai a Walter e su quella notte scrissi, ricordo, una pagina intera… Così, quando il Corriere, tre estati fa, mi ha chiesto un racconto estivo, da ombrellone, io, forse anche un po’ come provocazione, ho proposto un reportage su Cap d’Adge, il più grande villaggio scambista del pianeta. E a via Solferino, con mia grande sorpresa, risposero: fico, va bene, parti!
Era curioso, ha sperimentato?
Mi sa che è lei ad essere molto curioso, eh…
Qual è stata la scena più trasgressiva che ha visto?
Una signora di Lecce che portava il marito, carponi, al guinzaglio. Il poverino, a comando, abbaiava anche.
A Cap, era con l’uccello di fuori mentre osservava, sentiva e scriveva?
Assolutamente sì. Cap nasce come villaggio naturista… e presentarmi vestito, significava dire: ehi, amici, sono del Corriere! Perciò, certo, avevo solo una camicia che mi proteggeva dal sole…
In una delle poche interviste che ha rilasciato, ha detto che l’amore è contraddizione, sofferenza. Voleva autoassolversi da qualche sua vergogna?
L’amore è un sentimento meraviglioso, talvolta inspiegabile, ma sempre anche pieno di efferate difficoltà. E, comunque, non è detto che lo si trovi facilmente. Mi ritengo quindi una persona fortunata, sebbene l’abbia incontrato molto tardi.
È diventato padre all’età quasi di un nonno. Era allergico ai figli?
Ho sempre adorato i bambini. Ma i bambini, le do una notizia, non li porta la cicogna. Diciamo che qualche volta si fanno aspettare.
Finora, è stato più carnefice o vittima? Osservandola, non ha la faccia del dannato, però, anzi…
In realtà, né l’uno né l’altro. I miei rapporti con le ex fidanzate sono sempre stati ottimi, e lo sono tuttora… Alcune, nel tempo, sono diventate anche carissime, preziose amiche.
Quante querele ha nel cassetto?
Nessuna. Ho ricevuto solo tre querele e non soltanto le ho vinte, ma la controparte è stata anche costretta al pagamento delle spese legali.
Sempre pungente e impietoso e poco indulgente con gli altri; ci racconti, allora, adesso, qualche sua topica?
Un giorno, Mieli mi chiama e mi chiede, a seguito di un guaio politico che adesso non ricordo, di intervistare Ettore Scola. Allora lo cerco sul telefono di casa, ma non risponde. Le ore passano e ho necessità di scrivere. Così decido di sentire la segreteria di direzione del Corriere e domando se, nel loro database, hanno il numero di cellulare del regista. Controllano, e me lo girano: io chiamo subito. Dall’altra parte, c’è un “Pronto!” stentoreo. Io parto subito con un: Maestro, buon pomeriggio, sono Roncone del Corriere. E lui: “Maestro? Mi sembra un po’ troppo”. Io insisto: “Beh, se non è maestro uno come lei…”. E lui: “Esagera… Comunque mi dica, figliolo”. Dentro di me, mi dico: perché Ettore Scola mi chiama figliolo? Insomma… era il cardinale Scola…
uesta fa ridere, certo, ma a me interessa sapere più un buco giornalistico…
Agli inizi della mia carriera, grandissima lezione. Facevo il cronista di nera a Paese Sera e mi mandano su un delitto: prostituta uccisa sulla Flaminia, all’Hotel delle Rose, che ora non c’è più. Arrivo con il fotografo, a bordo di una rugginosa Fiat 127 con i pneumatici lisci, per cui la guidavi sempre in controsterzo. Giunti sul luogo del delitto, davanti l’ingresso dell’albergo, incontro l’anziano cronista del Messaggero, e il suo fotografo, che stanno per risalire sulla loro fiammante Alfa. Mi fanno: non abbiamo trovato niente, inutile restare, mi mettono una mano sulla spalla e dicono dai, andiamo a casa della poverina. Io li seguo e lì, ovviamente, non troviamo niente. Torno, mesto, al giornale: sul taccuino avevo veramente poco o nulla. E infatti, il giorno dopo, usciamo con cinquanta righe di nulla. Il Messaggero, invece, sulla storia ci fa addirittura due pagine: avevano tutto, comprese le foto dei vestiti della vittima sporchi di sangue…
Da anni conosce il Palazzo come pochi; chi sono i politici più permalosi e cattivi con cui ha dovuto fare i conti?
Quasi sempre i politici sono permalosi. È spesso gente priva di cultura, miracolata dal destino, con animo basico, c’è pure qualche mitomane convinto d’essere un incrocio tra De Gasperi e Togliatti… Il declino è stato lento e inesorabile, ma è chiaro che l’avvento dei grillini ha dato alla classe politica il colpo di grazia… La buvette di Montecitorio, ormai, sembra un’uscita della metropolitana… Il Transatlantico, luogo di intrighi memorabili, di inciuci sublimi e bizantinismi supremi, è oggi un salone mortificante…
Sì, ma non ha risposto alla mia domanda: negli anni in cui i politici contavano qualcosa, chi erano i più cattivi?
Non insista, nomi non gliele faccio. Posso però dirle che, a volte, quelli che passavano per essere ruvidi e cattivi, all’atto pratico si rivelavano diversi da come me li ero immaginati…
Tipo?
Verdini. Il potente Denis, il comandante in capo delle truppe berlusconiane era davvero un leone pericoloso. Se c’era, ad esempio, una votazione importante, i deputati non li mandava neanche in bagno. Eppure, la cortesia di Verdini, con me, era sempre notevole. Uno che passava per essere feroce era pure l’avvocato Ghedini: lui aveva anche il tratto morfologico spaventevole. Però le racconto questa: un giorno lo chiamo e gli faccio qualche domanda, perché eravamo alla vigilia di non ricordo più quale processo importante del Cavaliere. Tramuto il colloquio in un pezzo, lo pubblichiamo con un gran titolo, e dopo qualche giorno, ecco che mi arriva a casa una lettera di Ghedini. In cui mi dice che aveva sbagliato a rispondermi al telefono, ma che io avevo fatto, e bene, il mio mestiere. Un altro che veniva considerato, e con qualche ragione, temibile, era Dell’Utri. Anche con lui, lunga intervista, alla fine della quale si congeda dicendo: di solito mi faccio rileggere domande e risposte, ma lei proceda pure come meglio crede, mi fido…
Quali sono i giornalisti che le stanno più sulle palle? Travaglio, nel suo “Conticidio”, ad esempio, la stuzzica spesso…
Guardi, io leggo il Fatto tutti i giorni, perché penso sia un giornale molto croccante, sempre pieno di chicche che, magari, non trovi su altri quotidiani. Temo che l’unica cosa un po’ polverosa sia forse proprio quel colonnino che Travaglio scrive il lunedì o il martedì, non ricordo. Sembra sempre uguale a quello della settimana precedente. Quindi capita che lo salti, e sia perciò qualche collega a segnalarmi i capitoletti che, ogni tanto, mi riserva. Ma mi sembra siano graffietti del tutto innocui. Tra l’altro, le dico: quando ci incontriamo, siamo sempre con sorrisi e chiacchiere cordiali…
Una volta Sallusti, dalle colonne di Libero, le ha dato del mediocre sia come giornalista che come scrittore. Cosa aveva combinato?
Sallusti? Boh.
Gliela rinfresco io, la memoria: aveva scritto qualcosa contro Renato Farina, in arte Betulla…
Ah, sì! Ma certo! Diciamo che ero stato un po’ ruvido con Farina… All’epoca, tra l’altro, mi chiesi con stupore perché Sallusti si fosse sentito così in dovere di difendere l’ex agente “Betulla”…
Oggi la vera opposizione al governo Meloni, la fa Dagospia e pochi altri coraggiosi: le piacerebbe che il suo Corriere, noioso, fosse più mordace, cattivo, libero?
Per definizione, il Corriere fa il Corriere. È una portaerei, ha i suoi tempi di navigazione, la sua rotta, la sua micidiale forza di fuoco. Il Corriere è questo, i lettori vogliono questo: un racconto del Paese autorevole e credibile, equidistante, con una sua sobrietà di fondo…
A me, sovente, fa sbadigliare, il Corriere… Lei non lo trova noioso?
Francamente, no! Anzi, spesso, c’è troppa roba, c’è un’offerta che, a volte, fa paura…
I lettori, dal Corriere, in realtà sono scappati a gambe levate. L’emorragia delle copie è pazzesca e meritata. Lei è così sicuro che i lettori vogliano quello che gli offrite giornalmente?
Questa è la seconda domanda un po’ traballante. Ma ci sta, perché è un bel po’ che parliamo. No, guardi: il Corriere di carta resiste magnificamente al crollo di vendite degli altri quotidiani e, in più, registra un notevole aumento degli abbonamenti digitali, che poi sono il futuro dei quotidiani. Il Corriere, per distacco, resta il più venduto giornale italiano.
Cosa invidia a Roberto D’Agostino? La sua libertà, il suo coraggio?
La libertà, no, perché ce l’ho anche io… Il coraggio, idem. A Roberto, invece, invidio la capacità di avere sempre una “lettura” completa e originale dei fatti, dovuta alle cose che ha visto, che sa, a quel suo certo modo di avere una cultura militante.
Quali sono i colleghi che stima e di cui legge immancabilmente i pezzi?
Sul Corriere ce ne sono tanti, a cominciare dal mio amico fraterno Cazzullo… che, come sappiamo, appartiene alla categoria dei fuoriclasse. Sul Foglio leggo, con piacere, Masneri e anche…
…E Vittorio Feltri?
Vittorio è un grandissimo della nostra professione. Ho, a casa, conservati, alcuni suoi pezzi, di quando era un inviato del Corriere: davvero pieni di classe, talento… Ogni tanto, adesso, forse un po’ deborda, ma credo che a debordare, più che lui, sia un po’ il suo personaggio.
Chi è il più bravo nella scrittura?
Giuliano Ferrara.
Si vede ancora al Corriere, o si immagina qualcosa di diverso nella sua vita professionale? Dopo 27 anni di fedeltà e monogamia giornalistica, non ha voglia di fare altro? Non ha le palle piene di via Solferino?
Ma sa, il Corriere è casa…
O è pigrizia? Non ha paura dei cambiamenti?
Non ci ho mai pensato…
Scrivendo e frequentando, spesso e volentieri, palazzi e uomini torbidi, ha imparato qualcosa di sé?
Sì. Da anni vedo il peggio, e racconto il peggio di questo Paese. Eppure, sorprendentemente, credo di non aver ancora smarrito la tenerezza.
C’è stato un momento, o dei momenti, in cui si è sentito perso, soprattutto nella sfera degli affetti?
È un momento o poco più, ha ragione. È lo squillo del cellulare, è la voce di un medico che annuncia, con poche fredde parole, la morte di tua madre. O di tuo padre. Sai che sarebbe successo, te l’aspetti, ti sei preparato. Ma la sensazione, in quel preciso momento, è di cadere nel vuoto.